di Roberto Gremmo – Capisco la volontà di far credere che la Resistenza sia stata unitaria, tricolore e patriottica per giustificare la solita demagogia nazionalista ma trovo un’esagerazione voler imporre il canto di “Bella ciao” come inno distintivo del movimento partigiano. Considero perciò una forzatura la proposta di legge dei deputati Vaccari, Furfaro e Berruto d’imporne l’esecuzione nelle cerimonie ufficiali del 25 aprile. Sono sempre stati i regimi totalitari a costringere le bande musicali a suonare in base a ordini legali e non si deve seguirli sulla strada scivolosa dell’obbligo di spartito.
In realtà, la canzone “bella ciao” con un testo generico e poco evocativo era una delle meno care al movimento partigiano, che motivava la propria scelta ribelle con composizioni di ben più profondo significato.
L’inno dei ribelli della montagna era in realtà “Fischia il vento” con una melodia basata sulla canzone russa “Katiuscia”, portata in Italia dai reduci dell’Armir e con un testo opera del garibaldino ligure Felice Cascone.
Fino agli anni Sessanta, ricordo bene, la canzone del 25 aprile era solo questa.
Localmente, avevano fortuna delle canzoni composte da altri partigiani.
A Genova “dalle belle città date al nemico” che invitava a “farla finita con questa banda infetta” dei fascisti; a Carrara l’inno anarchico ed in Piemonte la celeberrima “Badoglieide” che inveiva contro il capo del governo di cui era ministro Togliatti rifacciandogli il suo passato fascista urlandogli “ci hai già rotto abbastanza i cogl…”.
Perché “Fischia il vento” e tutte queste canzoni plebee, violente e divisive sono state silenziate, preferendo il ritornello inespressivo creato in Abruzzo dalla Brigata Majella che, in realtà non era neanche una autonoma formazione partigiana, ma un reparto subordinato direttamente all’Ottava Armata britannica ?
Facile capirlo.
Le vere canzoni partigiane non avevano nulla a che spartire con la vecchia liberal-democrazia, i principi costituzionali e lo Stato di diritto, ma esaltavano l’ideale d’una società collettivista, che in fondo in fondo, era il vero obiettivo di quella lotta.
Siccome si è voluto far credere che i partigiani erano antesignani del regime pluralista (si fa per dire) e partitocratico, non si possono rievocare le loro canzoni che, di per se stesse, rivelano che la Resistenza non fu affatto unitaria, scateno’ furibondi contrasti sulle prospettive del “dopo” e l’unità antifascista andò subito a pezzi a guerra finita.
Oggi non è politicamente corretto cantare una canzone che termina in modo inequivocabile:
“Fischia il vento, infuria la bufera,
Scarpe rotte pur bisogna andar
a conquistare la ROSSA PRIMAVERA
dove sorge il sol dell’avvenir”.
Sono parole rivelatrici di una realtà oggi troppo scomoda. Polvere di ideali traditi, da nascondere accuratamente sotto il frusto tappeto della Patria liberata.