VERITA’ DIFFICILI 5 – L’Unità clandestina e i racconti di via Rasella

21 Aprile 2024
Lettura 8 min

di Roberto Gremmo – Quando lo incontrammo assieme ad Orfeo Mucci nella sua elegante casa romana dietro il ‘Palazzaccio’ Rosario Bentivegna ci esibì tutto soddisfatto la foto d’un numero dell’“Unità” clandestina del mese di marzo del 1944 che esaltava la sua azione in via Rasella.
 Invece, mentre il foglio stampato alla macchia glorificava i ‘gappisti’, l’altra “Unità” che negli stessi giorni usciva legalmente nel ‘Regno del Sud’ prendeva le distanze dall’attentato.
 Eppure Bentivegna aveva ragione da vendere quando sosteneva d’essere stato un fedele esecutore degli ordini e delle direttive che partivano a nome del P.C.I. da Giorgio Amendola e dai suoi collaboratori che apertamente incitavano i romani ad azioni violente e disastrose.
Mettendo le loro intenzioni nero su bianco.
Il  febbraio del 1944 quando la polizia aveva fatto irruzione nella tipografia di Carlo Fattori in via San Saba aveva sequestrato centinaia di manifestini stampati alla macchia e firmati dalla “Federazione Comunista Laziale” dal contenuto inequivocabile perché incitavano i romani a passare a vie di fatto:

   “…ROMANI !
    Per il nazi-fascismo si avvicina a grandi passi la resa definitiva dei conti. Impediamo che nello spasimo della morte esso faccia altre vittime.
   Rintuzziamo la sua ferocia, preveniamo i suoi delitti.
   Ovunque un tedesco varchi il portone di un palazzo, date l’allarme, assalitelo, colpitelo.
   Rispondiamo al terrore con un più forte terrore…”.

   Detto e fatto.
 E’ del tutto evidente che in via Rasella i ‘gappisti’ avevano messo concretamente in pratica direttive come queste.
   Eppure dopo l’attentato la reale posizione assunta dal P.C.I. non appare assolutamente chiara.
   Negli archivi si conserva certamente un numero dell’“Unità” clandestina che porta la data del 30 marzo 1944. Abbina un articolo di condanna della strage (“Gloria eterna ai 320 fucilati di Roma ! Vendicare i nostri martiri – Liberare la nostra Patria”) all’esaltazione dell’azione gappista (“Colonna di carnefici tedeschi attaccata in via Rasella”) e per sopramercato pubblica una rivendicazione del “Comando dei Gruppi d’Azione Patriottica” con la data del 26 marzo.
    Non per caso, quest’“Unità” compare col numero 8 dell’anno XXI° ed é stata riprodotta con buona ragione da Bentivegna nell’inserto fotografico del suo libro di memorie.
   Di questo numero 8 al “Museo della Resistenza Romana” di via Tasso esiste una copia che, con tutta evidenza è semplicemente una bozza, stampata solo su una facciata e col retro completamente bianco.
 L’originale manca anche all’Istituto “Gramsci” (archivio ufficiale del P.C.I.) dove si conserva appena una fotocopia dell’esemplare di via Tasso.
   Di più non c’è.
   I dubbi sull’effettiva diffusione di quel foglio si fanno consistenti se si tiene conto che il 3 febbraio la Questura di Roma era riuscita ad individuare la tipografia clandestina del P.C.I. in via San Saba 24 arrestando il proprietario Carlo Fattori ed i suoi dipendenti e sequestrando diversi pacchi di manifestini della “federazione comunista laziale”.
   Il numero 9 dell’“Unità” clandestina di Roma porta la data del 6 aprile 1944 ed il numero 10 quella del 13 aprile 1944.
   Di quest’ultimo mentre l’esemplare di via Tasso ha la numerazione a stampa quello conservato presso l’Istituto “Gramsci” il numero è stato aggiunto solo a matita come se fosse stato stampato da persone diverse da quelle che curarono il numero 8 e che, sapendo o pensando fosse stato ritirato, si siano trovate di fronte al dubbio su quale numero utilizzare per indicare il nuovo giornale.


   Fu solo per una svista che, nel ’65 Amendola nel suo libro delle “Lettere a Milano” sbagliò la numerazione di quel numero del 30 marzo scrivendo che si tratta del 6 anziché dell’8 ?
   In un clima di deplorazione diffusa, l’entusiastica esaltazione di via Rasella fatta dal numero 8 dell’“Unità” era opportuna o qualcuno, nel P.C.I. si rese conto che l’apologia di quel gesto sarebbe stata controproducente e tolse dalla circolazione quel giornale, rimasto solo in bozza e mai diffuso lasciando così il giudizio del P.C.I. su via Rasella per lo meno sospeso?


    E questo a differenza dell’“Avanti !” clandestino di Roma che il 5 aprile esaltò gli ‘audaci partigiani’ di via Rasella protagonisti di quella che definì, anticipando i giudici delle tante iniziative legali di Bentivegna, “una vera e propria azione di guerra in quel teatro di guerra che é oggi ogni città occupata”.
    Accanto alla fantomatica “Unità” numero 8, oggi visibile solo nella bozza della prima facciata, l’unico foglio clandestino che esaltò i ‘gappisti’ fu infatti l’organo di quel P.S.I.U.P. dove ormai militava Matteo Matteotti, per sua stessa ammissione, in posizioni di tutto prestigio dopo aver lasciato “Bandiera Rossa”.


   Invece il numero 9 dell’“Unità” datato 4 aprile negò seccamente che fra gli autori dell’“azione armata del 23 marzo” potessero esserci militanti irregolari ed anzi accusò di provocazione “un gruppo di irresponsabili” che “abusando del simbolo della bandiera rossa”  avrebbero diffuso a Roma dei manifestini provocatori esaltando l’attentato, fornendo così ai nazisti un “alibi vigliacco” per la rappresaglia, in qualche modo ‘legittima’ contro dei terroristi.


    La polemica era strumentale perché i volantini presi di mira circolavano da settimane, e non contenevano alcun cenno a via Rasella ma la presa di distanza dell’“Unità” dall’attentato era più che evidente.


   Per di più, accusando d’essere oggettivi fiancheggiatori del nemico coloro che esaltavano via Rasella, “L’Unità” numero 9 sconfessava quanto aveva scritto il ‘bozzone’ del presunto numero 8 dove i “Gruppi d’Azione Patriottica” rivendicavano l’attentato.


    Nel Regno del Sud dove il “Partito Comunista Italiano” operava alla luce del sole e seguendo le direttive di Togliatti non vi fu mai una presa di posizione ufficiale sui tragici avvenimenti romani.
   L’“Edizione meridionale” dell’“Unità” pur dando notizia in modo impreciso sulla strage nazista non fece cenno all’azione di via Rasella e per trovare su quel giornale l’esaltazione dell’“audacia del colpo” di “tre gruppi di GAP” fu necessario attendere un’intervista a Mauro Scoccimarro apparsa solo il 18 giugno, diversi giorni dopo la liberazione di Roma quando si dovevano legittimare, ma solo a posteriori, le loro azioni.
    V’è però da credere che al di là delle linee, l’attentato non avesse suscitato grandi entusiasmi in un uomo prudente come Togliatti. Infatti il suo segretario dell’epoca Massimo Caprara, in vena di scottanti rivelazioni, nel 1996 sconfessò clamorosamente chi operò in via Rasella:

    “Il commando non faceva parte organica del Partito comunista italiano e tantomeno applicava le sue direttive politiche. Come lo stesso dottor Bentivegna ammette, si trattò di un gruppetto di “cani sciolti” di varia estrazione sociale e politica. Da esso non era esclusa una componente truffaldina […] Il nucleo di cui fece parte Rosario Bentivegna […] apparteneva ostentatamente, in massima parte, ad avversari dei comunisti italiani e sovietici e si definivano cosidetti ‘entristi’, ossia militanti seguaci di Trotzkij che usavano una condotta doppia, di adesione e di sabotaggio, per infiltrarsi nelle file comuniste e ostacolarne l’attività […] le matrici dalle quali scaturì l’episodio di via Rasella e il comportamento successivo al bando nazista non rientravano nei canoni dell’azione partigiana di stampo comunista. […] Dell’attentato di via Rasella, il Partito comunista, né a Roma, né altrove, si gloriò come di un trofeo. Ovviamente, condannò con sdegno e con violenza la rappresaglia nazista. Ma non innalzò sulle proprie bandiere i nomi degli attentatori come Bentivegna”.

   La definizione di ‘cani sciolti’ per i ‘gappisti’ partita da Caprara che si autodefiniva “a conoscenza dei fatti” sgombrava il campo da responsabilità dirette di Togliatti che pure erano strumentalmente state evocate dal ‘traditore’ Blasi al processo Kappler e spesso e volentieri ritenute attendibili per ragioni di bassa polemica politica.
   La presa di distanza di Caprara trovava però una smentita dal ruolo direttivo di Giorgio Amendola nell’attentato e dal fatto incontestabile che, ‘entrista’ o no, Bentivegna il 23 marzo 1943 apparteneva comunque organicamente al P.C.I., circostanza ammessa a denti stretti dallo stesso ex segretario di Togliatti.

Dopo la liberazione di Roma “L’Unità” arruolò ufficialmente i G.A.P. nel P.C.I.

    Sempre una doppia verità.
   Se con l’andar degli anni, un nostalgico del togliattismo come Caprara allontanava dal P.C.I. il sospetto d’aver avuto ruolo direttivo nell’attentato, fu proprio “L’Unità” romana uscita alla luce del sole pochi giorni dopo la liberazione della capitale a sbandierare l’appartenenza organica dei ‘gappisti’ al partito di “Ercoli”.
   Già il primo luglio 1944, in polemica aperta con il brigadiere dei carabinieri Angelo Joppi che su un quotidiano monarchico s’era vantato d’aver “rivendic[ato] almeno due azioni che furono organizzate dai G.A.P.” il quotidiano pubblicò una durissima reprimenda firmata dai “G.A.P. Centrali dell’Organizzazione romana del P.C.I.”, autodefinizione che non poteva essere più chiara.
    La smentita voleva avere carattere ufficiale e forniva alcune precise informazioni:

“L’espressione più eroica della volontà di resistenza e dell’odio a morte contro il nemico fu in Roma l’azione partigiana che condussero i Gruppi di Azione Patriottica dell’Organizzazione Comunista Romana. Segnatamente quattro di questi Gruppi (“Giuseppe Garibaldi”, “Antonio Gramsci”, “Carlo Pisacane”, Gastone Sozzi”) noti sotto il nome di GAP Centrali del P.C.I. portarono a termine il 90 per cento delle azioni di guerra organizzate contro i tedeschi e i fascisti nella città di Roma. Gli effettivi di questo organismo militare del nostro Partito non superarono mai il numero di 20 combattenti”.

    Un ‘organismo militare’ del P.C.I., sensa se e senza ma.
    Curiosamente ma non troppo, non si fece cenno a via Rasella, non furono indicati i nomi di quei ‘gappisti eroici’ e soprattutto, fissando tutta la loro gloriosa schiera a 20 persone, s’impedivano successive estensioni del loro numero.
 Cinque giorni dopo sullo stesso giornale apparve un nuovo scritto apologetico, stavolta dedicato alle ‘donne gappiste’ di cui non si indicava nessun nome ma si ricordavano quelle che potevano essere le loro azioni più eroiche: il trasferimento di armi in “innocenti sporte di bieda” ed un attentato a via Claudia.
    Come dire: niente donne a via Rasella.
   Proprio mentre il giornale riempiva colonne di piombo per esaltare quei venti ‘gappisti comunisti’ e le donne un po’ meno ‘gappiste’ ma altrettanto eroiche, “L’Unità” era costretta a fare i conti con una vicenda che rischiava di costar cara ad un giovane che poche ore dopo la Liberazione faceva parte del ‘servizio d’ordine’ del giornale e che, per ragioni ancora da chiarire, aveva ucciso a colpi di pistola un ufficiale della “Guardia di Finanza”.
  La vittima era al servizio degli Alleati che avevano arrestato lo sparatore e si apprestavano a processarlo: era Rosario Bentivegna.  
 Costretta a prendere le difese dal compagno alla sbarra, “L’Unità” gli dedicava un articolo dove lo definiva “eroe della guerra partigiana” e ne ricordava i principali meriti:

“Nel periodo dell’occupazione hitleriana, Bentivegna ha partecipato a una cinquantina di azioni contro le truppe tedesche e contro i fascisti sia nella guerra partigiana che egli ha valorosamente combattuto nella regione di Palestrina […] sia in qualità di componente di un Gruppo d’Azione Patriottica a Roma. […] Rosario Bentivegna, con supremo disprezzo del pericolo, ha eseguito personalmente il 23 marzo scorso, l’attacco contro una colonna di S.S. in pieno assetto di guerra che transitava per via Rasella”.

   Per “L’Unità” romana era stato un uomo del P.C.I. l’esecutore (sembrava addirittura unico !) di quella sanguinosa e sempre meno chiara ‘operazione’ condotta nella cupa, macabra ed oscura via Rasella.
    Che tutta Roma odiava e detestava.
(5 – continua)

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