L’indipendenza è un reato d’opinione. Il Codice Rocco difende l’Italia e il tricolore

7 Gennaio 2021
Lettura 4 min

di GIOVANNI POLLI L’emozione è ormai sfiorita. Gli afflati sono spenti, e  molti di quelli che erano Charlie Hebdo hanno smesso di portare la maschera. E’ forse allora giunto il momento di avviare qualche timida e pacata riflessione sul significato della frase “libertà di espressione”, della quale tutti si sono riempiti la bocca ma forse senza assaporarne fino in fondo il gusto non sempre dolce e gradevole.  Facciamo allora un particolare riferimento a chi, per esempio la galassia indipendentista, non si riconosce affatto in questo Stato e nei suoi simboli, e magari ha anche voglia o necessità quasi fisica– colto da improvvisi stati d’animo provocati da piccole o enormi ingiustizie compiute dall’Italia o nel nome dell’Italia – di lasciare libero sfogo alle proprie opinioni non sempre tenere o gradevoli nei confronti di questo Stato.
La parola “simboli” non è stata utilizzata a caso. L’articolo 292 del Codice penale in vigore, infatti, intitolato «Vilipendio o danneggiamento alla bandiera o ad altro emblema dello Stato» recita esplicitamente: “chiunque vilipende con espressioni ingiuriose la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato è punito con la multa da euro 1 000 a euro 5 000. La pena è aumentata da euro 5 000 a euro 10 000 nel caso in cui il medesimo fatto sia commesso in occasione di una pubblica ricorrenza o di una cerimonia ufficiale”. Siamo quindi in presenza di una classica norma atta a punire non già chi commette un fatto materiale ma si limita ad esprimere un giudizio, un’idea, una visione politica. Un reato di opinione in piena regola, insomma.

Negli Stati autoritari

Ed è appena il caso di ricordare che il reato d’opinione è elemento caratteristico di tutti gli Stati autoritari. Non c’è nemmeno, in questo caso, la distruzione materiale di alcunché, ma solo un reato “verbale” di vilipendio. Un caso pratico? I cori, quasi sempre sull’aria della celebre “Mula de Parenzo”, attraverso i quali molti militanti indipendentisti hanno spesso manifestato goliardicamente e pubblicamente alcuni loro sogni incendiari nei riguardi di “emblemi” di uno Stato, quello italiano, ritenuto usurpatore.

Il tricolore

Nel 2001 tre leghisti – tra cui Andrea Gibelli, all’epoca della sentenza deputato – finirono sotto processo a Lodi proprio per aver cantato la canzoncina nel 1998. Finirono assolti “perché il fatto non sussiste”, ma per tre anni la spada di Damocle, comprese le spese, dondolò sospesa sulla loro testa. E se in concreto nessun indipendentista risulta essere incappato nelle condanne della giustizia italiana per aver detto quel che pensava in merito alla bandiera italiana, soltanto l’immunità parlamentare, nel 2008, salvò Umberto Bossi per quanto proclamò nel suo celebre comizio di Como di undici anni prima, nel quale descrisse un particolare uso del tricolore non molto gradito a chi in quel simbolo malgrado tutto continua a riconoscersi.

Vilipendio, ma a sinistra è danneggiamento

Anche gli sparuti roghi degli italici drappi, nei quali più che i leghisti si sono distinti gli esponenti dei centri sociali, sono finiti molto spesso in un nulla di fatto. Così, ad esempio, per l’incenerimento di una bandiera italiana avvenuto il 25 aprile del 1999, da parte di militanti di estrema sinistra, durante le manifestazioni contro la guerra in Kosovo. L’incendiario fu condannato al pagamento di 1500 euro non per “vilipendio” ma per “danneggiamento”.
“Essere Charlie”, ed esserlo per davvero, può quindi costare caro anche in Italia, se non per le condanne almeno per lo stress dei processi, quando ad essere sotto attacco delle opinioni sono i sacri dogmi dell’unità dello Stato. Tanto sacri che si rischia molto di più a vilipendere i simboli della “Patria italiana” che non quelli delle religioni.

Depenalizzata la bestemmia, ma il tricolore non si tocca

Se, come si è visto, offendere il tricolore può costare una multa fino a 10mila euro, offendere una divinità è molto più a buon mercato: il reato di “bestemmia” è infatti stato depenalizzato ed è un semplice illecito amministrativo. Attualmente, recita infatti l’articolo 724 del Codice penale, “chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità, è punito con la sanzione amministrativa da euro 51 a euro 309. […] La stessa sanzione si applica a chi compie qualsiasi pubblica manifestazione oltraggiosa verso i defunti”. Sempre ammesso che qualcuno abbia tempo e voglia di compilare un verbale. In ogni caso, sempre della punizione di un’opinione, per quanto sgradevole ed incivile che possa suonare, si tratta. E il Consiglio d’Europa ha esortato gli Stati membri a cancellare del tutto dai loro codici penali le fattispecie che integrino reati di questo genere.

Italia paese di m…: condannato

Ma, a questo punto, la parte del leone in questo Paese in cui essere Charlie non conviene sempre, è compiuta proprio da un articolo che non tutela tanto un simbolo ma il concetto stesso, grande grande ed alquanto discutibile in senso stretto e proprio, di “nazione italiana”. L’articolo 291 è secco e brutale e si intitola “Vilipendio alla nazione italiana”. “Chiunque pubblicamente – recita – vilipende la nazione italiana è punito con la reclusione da uno a tre anni”. Un retaggio fascistissimo del codice Rocco, che tuttavia ha avuto un inaspettato e sconcertante revival in tempi molto recenti. Nel luglio 2013, i giudici della Prima sezione penale della  Corte di Cassazione hanno infatti confermato la condanna di un automobilista di 71 anni che, fermato dai carabinieri per una contravvenzione, aveva esclamato “Italia paese di m”.

Opinione decisamente tanto diffusa quanto proibita. “Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo – hanno stabilito i giudici della Cassazione – non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva”. Sufficiente, perché il fatto costituisca reato, “una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente”.  Di fatto, un reato quotidianamente commesso svariate volte da una buona fetta, se non da una maggioranza netta, di cittadini di questo Stato. Altro che “Je suis Charlie”. Piuttosto, “Je suis Cambronne”. Ma attenti a non farsi sentire dai carabinieri.

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