Dopo l’annessione al Regno di Sardegna, nessun plebiscito in Lombardia

16 Agosto 2022
Lettura 4 min

di Roberto Gremmo – Nel 1859 dopo l’annessione al “Regno di Sardegna” in Lombardia non si svolse alcun plebiscito popolare.

Si temeva, ovviamente, il prevalere dei rancorosi e tenaci democratici e federalisti legati all’esule Catteneo ma anche i numerosi legittimisti imperiali.

Forse anche perché imposta sulla punta delle baionette, l’unione al Piemonte provocò subito una forte ostilità nel Popolo lombardo che si accorse ben presto di non aver guadagnato nulla cambiando sovrano, come scriveva la “Civiltà Cattolica” denunciando che “i lombardi si lagna[va]no perché in Lombardia furono conservate pel 1860 tutte le imposte di prima; si lagna[va]no perchè s’impose alla Lombardia il sistema di amministrazione del Piemonte, e si distrusse perciò la ben ordinata amministrazione di prima; si lagna[va]no perchè una miriade d’impiegati piemontesi invase le provincie lombarde, e i Lombardi scelti a pubblici uffiziali vennero relegati in luoghi lontanissimi, insocievoli e montuosi; si lagna[va]no della mancanza di pubblica sicurezza, e dei furti e delle grassazioni che avven[iva]no ogni giorno nella stessa Milano”.

Un disastro.

Dando probabilmente sfogo ad un forte rancore, subito dopo l’annessione, un popolano di Rovagnate nel Comasco mentre si svolgeva una processione esponeva dalla finestra di casa sua il ritratto dell’Imperatore d’Austria che “per opera del Brigadiere di quei Carabinieri venne fatto ritirare”.

Del resto, la grave decisione di non sentire in alcun modo l’opinione dei lombardi venne malamente giustificata sostenendo che i cittadini di quella regione avrebbero già votato per l’annessione nel 1848. Tuttavia, in quell’occasione ed in un contesto sociale e politico controverso, si prevedeva come condizione fondamentale per l’adesione la contestuale elezione di un’assemblea costituente, che stavolta, va da sé, non doveva avvenire.

I plebisciti ebbero invece luogo in Emilia e Toscana, in condizioni a dir poco pazzesche.

All’alba del 10 giugno 1859 per evitare uno scontro militare dall’esito sfavorevole, il duca Francesco V° d’Este lasciò Modena anche “per non esporre i […] sudditi ai mali inevitabili di una difesa […] probabilmente infruttuosa”.

Due giorni dopo, fidando sul sostegno delle truppe italiane e francesi ormai alle porte, i patriottici modenesi rovesciarono la “Reggenza” cui il Duca aveva affidato l’amministrazione civile, organizzarono la “Guardia Nazionale”, tirarono fuori dai cassetti i tricolori e baldanzosamente assunsero i poteri, trasformando la “Comunità” cittadina in “Municipio” che mandò subito degli emissari all’accampamento di Vittorio Emanuele di Savoia chiedendo l’annessione della loro regione al regno di Sardegna.

Dopo pochi, difficili giorni di governo del commissario provvisorio del Re Luigi Zini, il 15 giugno venne proclamato governatore Luigi Carlo Farini, diventato in seguito “Dittatore delle Provincie Modenesi”.

Per ‘democratizzare’ in qualche modo le nuove terre diventate italiane, dal 16 al 23 agosto venne convocata un’effimera “Assemblea Nazionale delle Provincie Modenesi” presieduta da Giuseppe Malmusi.

A cose fatte, il succedersi convulso degli eventi fornì non pochi argomenti critici all’opinione pubblica conservatrice e nella stessa Torino, il giornale cattolico “Armonia” non si fece pregare a pubblicare la corrispondenza d’un anonimo modenese che forniva un quadro decisamente inquietante dei recenti avvenimenti della sua città, determinati da “un mascherato terrorismo” senza freni:

“I partigiani della bandiera ‘farinesca’, impostaci da truppe estere, si riducono agli ‘ingrati’, che ebbero già innumerevoli benefizi da Francesco V, ai ‘settari’ che giurarono guerra a Gesù Cristo, al Papa ed ai governi protettori dell’onestà e del diritto, finalmente agl’‘illusi’ che, per solito, han teste di sughero, zucche piene di vento. Questi ultimi si sono in gran parte convertiti, dopo che si sentirono frugar le tasche da esorbitanti pesi, che ne minacciavano, per lo scialacquo del pubblico denaro, sciagura inusitata sotto la dominazione estense; dopo che ancora vedono ire a precipizio la morale pubblica e la religion nostra santissima. I secondi, quasi preda del demonio, sono incorreggibili per sistema. I primi poi si riconoscono per tristi, e un’insana disperazione li associa sotto certo riguardo alla classe dei secondi.

Il popol mormora ormai intorno ai modi, coi quali si fece nascere fra noi la rivoluzione […]. In mancanza d’altri uomini di maggior ingegno, la combriccola scelse il commediante Ferrari Paolo a capitanare nella seconda festa di Pentecoste, come fece, per le strade di Modena, bandiera tricolore in mano, i pochi proletari cui fu data la parola e il danaro per gridare: ‘Abbasso la Reggenza !’ Il nuovo ridicolo Masaniello […] ebbe la comica sfacciataggine d’intimare ai membri della Reggenza di ritirarsi sotto pretesto della riprovazione popolare. […] Era pronta una controrivoluzione, che lo sdegno del pubblico verso il dott. Ferrari e compagni avea tosto eccitato, e solo potè impedirsi la lotta dei partiti col presentarsi Luigi Zini, avvocato, professore, ecc., amico e collega del Ferrari per ingegno e per opera, assertosi R. commissario straordinario il quale indi a poco passava poi a cedere il potere al R. governatore Farini, medico già noto all’Italia per le frenesie politiche contro Pio IX.

L’opera di costoro veniva gagliardamente sostenuta dalla Guardia Nazionale raccogliticcia, posta sotto il comando del leggerissimo marchese Fontanelli, che due anni prima, come corse voce, avea mendicato un’impropria divisa di Francesco V e la protezine dell’ambasciatore austriaco per aver l’onore a Parigi d’essere presentato a Napoleone III e di sentirsi rivolgere dall’augusto Monarca queste sole parole: ‘Mi compiaccio d’avere alla mia Corte un suddito di Francesco V. Cittadino, mi rallegro con voi che avete un bravo Principe’.

Insediatosi nel trono di Modena il Farini, sebbene sotto nome di R. Governatore, prese ad alimentare le passioni demagogiche della nostra plebe […]”.

Ovviamente, i settantatre deputati rappresentavano esclusivamente gli interessi dei borghesi parassiti e trafficanti, dei facoltosi proprietari terrieri e d’un ceto intellettuale ‘gattopardesco’ ma non s’interessavano per niente delle masse contadine che nelle settimane precedenti avevano mostrato apertamente la loro ostilità nei confronti delle novità istituzionali che venivano imposte.

Foto di Jürgen Scheeff

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