di GIANFRANCO MIGLIO*
Il mio colloquio con Umberto Bossi toccò infine il delicato punto dei nostri rapporti pratici. Io raccontai al mio interlocutore l’esperienza che avevo fatto tra il 1943 (periodo clandestino) e il 1959 come iscritto al partito della Democrazia cristiana; un’esperienza che non intendevo ripetere più, considerata anche la mia avversione alla vita di gruppo. Un partito, infatti, per me non è molto diverso da una cosca mafiosa anche se è fatto di santi, perché implica, a un certo punto, un rapporto di omertà. Non mi sarei quindi mai «iscritto» alla Lega, né avrei partecipato alla vita istituzionale del movimento; se avessimo riconosciuto di comune accordo l’opportunità della mia presenza in Parlamento, io avrei fatto parte del relativo gruppo, ma come «indipendente».
A consacrare meglio questa mia «collateralità» verso la Lega, dissi che, come costituzionalista, sarei stato un consigliere personale di Umberto Bossi, e non degli organi collegiali del movimento: il mio interlocutore si adeguò subito a questa prospettiva, tant’è vero che (l’ho saputo solo recentemente) tenne nascosto il nostro incontro, per alcuni mesi, ai suoi «colonnelli». Ma il fatto che io mi schierassi con il suo movimento gli fece molto piacere: tanto che festeggiò subito l’evento con una cena organizzata il giorno stesso dai leghisti comaschi, se non erro, al Terzo Crotto di Cernobbio.
Tuttavia i dirigenti lombardi della Lega, allora piuttosto a corto di oratori trascinanti, scopersero quasi subito l’efficacia dei miei incontri con il popolo del movimento e con i potenziali elettori; io non facevo nessuna fatica a passare dalla persuasione delle argomentazioni ragionate alla retorica martellante di un comizio. Cominciammo a Legnano con un rovente dibattito guidato da Gad Lerner, e poi via via a Busto Arsizio, e ai popolosi centri intorno a Milano, alle città storiche lombarde; i dirigenti locali erano estasiati. Colsi a volo un commento entusiasta dell’onorevole Leoni a un collega: «Te lo avevo detto che il Miglio “tira”!».
Naturalmente in tutti questi incontri io cercavo di costruire e di trasmettere qualcosa di più delle frasi fatte e delle formule propagandistiche: cercavo di dare, agli impulsi passionali dei miei ascoltatori, sbocchi razionali e un minimo di contenuto ideologico. Anche perché mi ero accorto che la «dottrina» politica della Lega e dei «leghisti» era piuttosto primitiva.
Cercai però subito di mettere un freno a questa esperienza; non facevo fatica a gestirla: ma mi stava trasformando in un «agit-prop» del movimento. Non c’era manifestazione leghista in giro per l’Italia alla quale gli organizzatori non facessero carte false per invitarmi. Gli operatori dei mass-media coniarono per me l’etichetta di «ideologo della Lega», che non mi è mai piaciuta e da cui non potei più liberarmi.
Il mio ruolo di tecnico della politica si trasformava sempre più in quello di referente «carismatico» del movimento: per la sua brevità, il mio cognome (due sillabe facilmente pronunciabili) divenne, con quello di «Bos-si, Bos-si», l’invocazione tipica delle grandi adunate leghiste, alle quali ero invitato. Avevo un bel chiedere a gran voce che si acclamasse soltanto il nome del segretario, perché – ammonivo – un movimento politico deve riconoscere e celebrare un solo capo: nella immaginazione dei seguaci io ero diventato – anzi: dovevo essere – la testa pensante della Lega, e quindi il completamento necessario di Bossi.
Nei primissimi tempi del nostro rapporto, il segretario del movimento mi aveva detto che facevo bene a sviluppare nei miei discorsi gli argomenti tecnici. «Io invece – si scusò – devo fare un po’ il pagliaccio sul palcoscenico, e usare espressioni. forti, perché soltanto così si riescono a trascinare molti del nostri “leghisti”».
Ma c’era un altro campo – oltre a quello dei comizi – in cui la mia presenza interferiva con l’attività del movimento: era quello del giornali e degli audiovisivi. Io avevo da molto tempo un accesso agevole a questo settore, e relazioni assai favorevoli con il mondo giornalistico: anche perché non mi era difficile assumere posizioni fortemente innovative (o almeno non-conformiste) sui temi più attuali del dibattito politico-economico-sociale, e soprattutto sugli aspetti giuridico-costituzionali dell’esperienza italiana. Naturalmente a ogni articolo, e a ogni intervista, premettevo sempre l’avvertenza che quanto manifestavo costituiva la mia opinione personale e che la Lega non c’entrava per nulla. Ma i giornalisti tendevano costantemente a ignorare queste riserve, e facevano un solo fascio delle mie tesi (qualche volta addirittura scientifiche) e dei rari pronunciamenti espressi dal vertice del movimento: alla perenne ricerca, come erano, di contraddizioni dentro i partiti e fra gli uomini che li impersonavano, inventavano spesso contrasti inesistenti. A un certo punto si diffuse il sospetto che Bossi e io giocassimo a disorientare i nostri avversari (e l’opinione pubblica ancora ostile) con il palleggio delle dichiarazioni contrastanti: posso assicurare che, se una situazione del genere poté sembrare prodursi, l’evento fu del tutto involontario. Piuttosto la facilità con cui partecipavo al continuo dibattito sui temi politici e su quelli collaterali, in assenza di esplicite prese di posizione della Lega, finì per dare l’impressione che io fossi veramente la «testa pensante» del movimento. E questo, se confortava i militanti più semplici, provocava invece una insofferenza in Bossi, e soprattutto nei suoi «colonnelli», che si sentivano trascurati dagli intervistatori e sottovalutati. Così, a partire dal 1992, il segretario della Lega prese l’abitudine ogni tanto di sottolineare la mia estraneità al movimento e il fatto che io non lo rappresentavo.
Per la verità, spesso mi chiedeva di intervenire con articoli e interviste allo scopo di sostenere determinate posizioni della Lega, o interpretazioni della situazione politica che convenivano alla sua strategia. Se – come accadeva abbastanza normalmente – ero d’accordo su queste esigenze, aderivo di buon grado alle sue richieste. In genere debbo dire che sono sempre riuscito a mantenere un’assoluta libertà di espressione e di comunicazione delle mie convinzioni.
Invece tengo a rilevare che, per la mia simpatia verso la Lega, ho dovuto pagare un prezzo molto alto sotto il profilo dell’immagine. La stampa ostile al movimento (e schierata in difesa della Prima Repubblica) nell’intento di dimostrare che la Lega non aveva, dalla sua parte, persone rispettabili, prese l’abitudine di rappresentarmi come un «dottor Stranamore», o addirittura come «Nosferatu»: insomma come un ingegno diabolico dedito ad aggredire gli avversari e a distruggere le regole del vivere civile. Certo, il gusto per la politica-spettacolo ha qualcosa da spartire con queste deformazioni: ma confesso che abituarmi a vedere le mie critiche al sistema costituzionale trasformate in «sparate» e in aggressioni verbali, non è stato facile.
*Tratto da “Io, Bossi e la Lega”