Via Rasella, le polemiche, le verità e le domande aperte per gli storici

9 Aprile 2023
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di Roberto Gremmo – Di quell’attentato di via Rasella mi sono occupato nell’ormai lontano 1996 quando pubblicai il libro “I partigiani di Bandiera Rossa” e constatai che la maggior parte delle vittime della feroce rappresaglia nazista erano degli internazionalisti (non dunque ‘italiani’, se non in senso puramente anagrafico) e antifascisti un po’ speciali perché ostili alla politica dei partiti tradizionali in quanto comunisti che volevano la rivoluzione; non la costituzione democratica.

Le semplificazioni polemiche del giorno d’oggi non ricordano questa realtà, che misi già in luce allora, anche collaborando con Pierangelo Maurizio del “Giornale”.

Grazie all’aiuto di Orfeo Mucci, all’epoca ultimo comandante dei partigiani di “Bandiera Rossa” ancora vivente, conobbi la figlia di Chilanti Gloria ed anche Rosario Bentivegna con cui ebbi cordiale scambio epistolare e divenni amico di Matteo Matteotti, figlio del martire socialista, che di “Bandiera Rossa” era una delle figure più prestigiose. Per mesi mi stabilii in pianta stabile a Roma dove raccolsi documenti, testimonianze e soprattutto portai le ricerche sul campo nella lugubre, stretta stradina che ancor oggi puzza di morte ed alla fine venne fuori tutta un’altra verità sulle ragioni dell’attentato, le vittime e gli esecutori.

Nel 2004 ho ripreso gli argomenti della vecchia inchiesta sul numero 38 della mia rivista ‘samizdat’ “Storia Ribelle”.

Ho pensato utile trascrivere di seguito le prime pagine.

Chi desidera conoscere il seguito può scrivere a storiaribelle@gmail.com

* * *

I segreti di via Rasella

Dopo via Rasella, la strage Ardeatina.

La più drammatica vicenda di Roma ‘città aperta’ si compone di due atti: l’attentato in pieno centro storico contro i tedeschi e la successiva rappresaglia nazista.

Fra i due momenti c’è il buco nero di qualche ora dove accadde di tutto ma ad oggi se ne sa poco o nulla.

I segreti inconfessabili di quell’attentato e della successiva strage sono stati gelosamente conservati per settant’anni.

Da un lato disponiamo di poche e contraddittorie notizie sulle ragioni dell’azione ‘gappista’ e sui suoi esecutori e dall’altro restano oscure le modalità della retata nazista e dell’esecuzione delle vittime.

Interrogato dagli Alleati, il poliziotto Alianello dichiarò che il “Partito Comunista” sapeva in anticipo i nomi delle vittime della strage ardeatina.

Un segreto ben custodito concerne i rapporti sotterranei, mai davvero scandagliati, fra i ‘gappisti’ che colpirono in via Rasella e i ‘collaborazionisti’ italiani dei nazisti.

Un esplosivo e sconcertante documento che squarcia il velo su questo vera e proprio ‘patto infame’ è stato colpevolmente trascurato fino ad oggi.

E’ il resoconto dell’interrogatorio di fronte agli Alleati del commissario di polizia Raffaele Alianello, sospettato di collaborazionismo e che al colonnello Pollock si giustificò sostenendo d’essere stato un avversario occulto dei nazisti:

“In merito all’eccidio dei 320 [sic] italiani da parte dei tedeschi in Via Rasella (dei 32 tedeschi uccisi 26 morirono subito e gli altri 6 morirono, invece, poco dopo), dichiaro che, quale Funzionario di Polizia in collegamento tra il Ministero Interno e le S.S. tedesche, verso le ore 18 o 19 del 23 marzo u.s. fui chiamato da Kappler, capo delle SS, in Roma, il quale, indignato per quanto era avvenuto, mi disse che sarebbe andato da Kesserling per ricevere ordini e mi pregò di ritornare da lui, presso l’Ambasciata tedesca, alle ore 9 del mattino successivo. Presentatomi da Kappler all’ora fissata, egli mi fece presente di aver ricevuto ordine da Kesserling di far fucilare 320 italiani, quale rappresaglia per l’uccisione dei 32 tedeschi del giorno precedente. Lo stesso Kappler mi disse che già avevano una lista di 270 persone, e cioè quelle detenute a disposizione dei tedeschi in via Tasso e al braccio tedesco di Regina Coeli. In tal modo furono presi tutti i detenuti a disposizione dei tedeschi, esclusi solo pochi che avevano lievi imputazione. Nell’elenco dei 270 vi erano alcuni già giudicati dal Tribunale tedesco e, forse, qualcuno anche condannato a morte dallo stesso tribunale. In via Tasso i detenuti venivano trattenuti per essere interrogati ed accertare la loro colpabilità, quindi venivano passati a Regina Coeli […] Kappler, quando mi presentai a lui il mattino del 24 marzo, non aveva l’elenco dei 270 da fucilare […] Non so se tra i 50 detenuti presi a Regina Coeli dai bracci italiani vi fossero stati dei comunisti; so, però, che vi erano parecchi del Partito d’Azione. Non ho lavorato con il Partito d’Azione ma ho lavorato in favore di tutti i partiti. […] Kappler aveva 37 anni. Non era cattivo; quelli che parlavano con lui ne riportavano una buona impressione. Da lui ho ottenuto la liberazione di certo Sprovieri che lavorava con il Generale Oddone […] Avuto da Kappler l’ordine di andare da Cerruti e chiedere l’elenco di 50 persone da fucilare volevo evitare ciò, come feci altra volta e precisamente in occasione dell’attentato di Piazza Barberini quando evitai di far fucilare 50 italiani, ma questa volta non mi fu possibile far niente in quanto l’ordine di fucilare i 320 era stato dato da Kesserling. Prima di andare da Cerruti mi recai a Via Tasso ove si trovava detenuto certo Trombadori (ora segretario di S.E. Scoccimarro), che interessava molto al Partito Comunista e per il quale ero riuscito a far interrompere il proseguimento delle indagini. In via Tasso non vi trovai che un tedesco delle SS,; non vi era alcun italiano. Seppi che il Trombadori non era compreso fra quelli da trucidare. Il Trombadori fu arrestato a via Giulia quando fu scoperto un deposito di bombe”.

Alianello aggiunse che, dopo aver avvertito Trombadori, sarebbe poi tornato in Questura dove avrebbe assistito alla compilazione di un elenco di detenuti da assassinare. Poi si sarebbe recato a Regina Coeli a consegnare la macabra lista al direttore delle carceri ma ne avrebbe tenuto per sé una copia che “comunic[ò] al Partito Comunista”.

Sono parole devastanti.

Vanno comunque prese con grande cautela, perché pronunciate da un individuo che doveva difendersi dall’infamante e terribile accusa d’aver avuto un ruolo attivo della grande strage ardeatina.

Nel proseguo dell’interrogatorio, Alianello negò temerariamente d’aver collaborato con Caruso nel redigere materialmente l’elenco dei detenuti da eliminare ma venne immediatamente sbugiardato quando sul foglio con quei nomi venne riconosciuta anche la sua scrittura.

Mentiva?

Nei giorni in cui veniva interrogato da Pollok, l’uomo del P.C.I. che aveva chiamato in causa, Antonello Trombadori era vivo e vegeto, ricopriva un ruolo di primo piano dell’organizzazione togliattiana e v’é da supporre che i suoi compagni che si occupavano dell’epurazione, lette quelle dichiarazioni, lo avessero informato. Alianello aveva dunque corso un grosso rischio facendo il nome di una persona che poteva smentirlo; ma, per quel che risulta, il dirigente del P.C.I. non disse nulla.

E’ un fatto che il 24 marzo 1944 Trombadori era davvero rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, ricoverato in infermeria.

Ma un documento dell’inchiesta sui crimini della famigerata ‘banda Kock’, sfortunatamente non utilizzato in sede processuale e rimasto per anni a prender polvere, sembra rivelare che il groviglio infame fra ‘resistenti’ e repubblichini fu ben più articolato e compromettente.

Il ‘traditore’ Blasi dichiarò alla polizia che il “gappista Franco” era in combutta con la ‘banda Koch’.

Guglielmo Blasi che fu uno dei ‘gappisti’ di via Rasella per poi aggregarsi agli scherani torturatori del famigerato ‘reparto di Polizia’ del dottor Pietro Koch, dopo la cattura venne interrogato nel carcere di San Vittore e, senza rendersi conto della gravità delle sue affermazioni, fece presente che un altro uomo dei “Gruppi d’Azione Patriottica” romani, “un certo Franco […] abitante attualmente a Stresa” sarebbe stato “intermediario tra Koch e diversi elementi della banda”.

L’accusa era grave ma, stranamente, benché nel 1945 il clima fosse quello d’un montante giustizialismo, l’uomo messo sotto accusa da Blasi non venne mai cercato.   

L’agguato a dei poliziotti coi fucili scarichi sarebbe stata “una legittima azione di guerra”.

La bomba scoppiata il 23 marzo 1944 in via Rasella non colpì dei soldati di un esercito occupante ma dei poliziotti in servizio d’ordine pubblico che, oltre tutto, avevano le armi scariche.

Fin dal 1975 un’accurata inchiesta giornalistica pubblicata da Hermann Frass sull’autorevole periodico “Historia” ha fatto chiarezza su questo aspetto di sicura importanza.

Il reparto preso di mira dai ‘gappisti’ era il reggimento “Bozen” composto da montanari e contadini sudtirolesi di lingua tedesca costretti ad arruolarsi ed a firmare una dichiarazione in cui si professavano ‘volontari’.

E’ certo però che “[i] richiamati ricevettero il loro “Soldbuch” (libretto personale) rilasciato e firmato dal comando di reggimento. Ed ebbero anche il grado di “Unterwachtmeister” che nella polizia significava soldato semplice. Tutti i superiori, ufficiali e sottufficiali erano tedeschi e i loro gradi non avevano nulla di simile a quelli della Wehrmacht (maggiore, capitano, tenente) o a quelli delle SS che erano profondamente diversi (Sturmfürer, Unterstrumfürer ecc.) questa precisazione è utile per dimostrare che quegli uomini non erano delle SS efferate”.

Dopo un periodo di sommario addestramento a Colle Isarco, i malcapitati montanari diventati loro malgrado poliziotti in armi, trasferiti a Roma, avevano iniziato un nuovo periodo d’addestramento.    

Erano considerati impreparati ed inadatti persino per i modesti incarichi di presidio e sorveglianza perché il tedesco che li comandava, il maggiore Dobberick “non aveva una grande opinione di questi suoi nuovi uomini, li chiamava “teste di legno tirolesi”, gli davano ai nervi quei montanari taciturni e miti.

Per lui, ufficiale di tipo prussiano, essi erano troppo lenti, senza scatto, poco adatti al combattimento. E, come se non bastasse, erano incredibilmente cattolici e privi di entusiasmo nazionale. Erano solo dei contadini superstiziosi, come ebbe a definirli il generale Mälzer”.

Quegli spaesati montanari erano finiti in una città teoricamente non un guerra perché Roma, città che ospitava il Pontefice cattolico, era stata dichiarata ‘Città Aperta’ e dunque nessuna formazione militare vi si poteva stabilire in modo permanente.   

Per non violare in modo smaccato l’immunità della città, subdolamente e furbescamente, “i tedeschi avevano creato quel battaglione di polizia proprio per controllare in qualche modo la popolazione, affiancando il comando SS e altri gruppi dipendenti da comandi speciali che non erano considerati reparti militari”.

I poliziotti sudtirolesi erano stati costretti a seguire per più mattine un corso d’addestramento e quel fatale 23 marzo era l’ultimo giorno previsto per le esercitazioni di tiro. Tuttavia gravava su di loro un triste presagio, probabilmente perché si erano diffuse voci allarmistiche o c’erano state incontrollabili segnalazioni spionistiche.

A Roma mezza città spiava (con profitto) l’altra.

Quel giorno gli agenti del “Bozen” erano particolarmente nervosi e preoccupati e, infatti, “[a]lcuni superstiti ricordano che la sera prima dell’attentato i posti di guardia erano stati rafforzati e gli uomini sollecitati alla massima attenzione. Poi il 23 marzo venne dato l’ordine di uscire con i fucili carichi e il colpo in canna, cosa che non era mai avvenuta. Ma qualcuno dimenticò di rinnovare l’ordine per il rientro, sicchè la compagnia, tornando dall’esercitazione, aveva i fucili scarichi”.

A guerra finita, i reduci del “Bozen” non vennero inquisiti in alcun modo per la loro attività e addirittura “con legge 3 aprile 1958 furono considerati combattenti ed invalidi delle forze armate italiane”.

Il dottor Rosario Bentivegna ha sostenuto per tutta la vita che l’attentato di via Rasella fu “una legittima azione di guerra” di partigiani che sarebbero stati a tutti gli effetti soldati dell’esercito italiano.

In un procedimento per danni intentato da alcuni parenti di vittime delle stragi ardeatine nei suoi confronti e contro Carlo Salinari, Franco Calamandei, Sandro Pertini, Giorgio Amendola e Riccardo Bauer “[l]e ragioni degli attori furono disattese e il Tribunale di Roma, 1° Sezione Civile, con sentenza del 9.6.1950 respinse ogni richiesta motivando che l’attacco di Via Rasella fu un “legittimo fatto di guerra che si riallaccia alla resistenza”.

La Corte di Appello di Roma, 1° Sezione, con sentenza del 5.5.1954 confermava la sentenza di primo grado e nella motivazione dava atto che l’azione partigiana di Via Rasella fu un atto lecito, legittimo atto di guerra, come tale meritevole di speciale menzione.

I convenuti furono considerati non rei ma combattenti e “le vittime per quella azione martiri caduti per la patria”.

Infine la Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, con sentenza del 9.5.1957 rigettava il ricorso dei famigliari delle vittime”.

Queste conclusioni giudiziarie non erano definitive.

Provocando un coro di critiche, il 16 aprile del 1998 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma Maurizio Pacioni doveva ancora una volta esaminare la tragedia di via Rasella perché i parenti di due civili rimasti uccisi nell’attentato, Iaquinti ed il tredicenne Pietro Zuccheretti; quelli del caduto alle Ardeatine Romolo Gigliozzi ed il signor Giorgio Forti segretario nazionale del “Comitato di difesa del cittadino” avevano denunciato per strage il dottor Bentivegna, Pasquale Balsamo e Carla Capponi.

Il giudice Pacioni dispose l’archiviazione del provvedimento ma in merito all’attentato “[e]scludeva pertanto che il fatto potesse qualificarsi “atto legittimo di guerra” ravvisando invece “tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage”.   

Un’affermazione pesante come un macigno e d’una portata dirompente, ben poco mitigata dalla decisione dello stesso giudice di chiudere il procedimento senza sanzionare i tre ‘gappisti’ poiché “[r]iteneva, sulla base degli atti di indagine disposti, fosse stato progettato ed attuato sicuramente ai fini patriottici indicati dal Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 96 del 1944, e disponeva di conseguenza l’archiviazione degli atti dichiarando estinto il reato per amnistia”.

Stragisti ma per la Patria?

Una bestemmia, agli occhi di Bentivegna e dei suoi due compagni che ricorsero immediatamente alla Corte di Cassazione sostenendo che il giudice non aveva titoli per giudicare il valore di quell’attentato, ritenuto più che legittimo dalle “Sezioni Unite Civili” della Corte di Cassazione e protestando che la sbrigativa archiviazione avrebbe causato un vero e proprio danno d’immagine ai ricorrenti.

Queste rimostranze ottennero favorevole ascolto e la parola definitiva giunse nell’estate del 2009 quando la Corte di Cassazione stabilì una volta per tutte che l’azione di via Rasella fu un “atto di guerra contro l’esercito nazista occupante”.

Le sentenze vanno sempre e comunque rispettate ma certamente non sono i documenti giudiziari a scrivere la storia.

La conoscenza della realtà che poteva essere sottoposta all’alto ed equanime giudizio dei magistrati negli anni ‘50 era comunque differente da quella emersa da nuove ricerche che si sono sviluppate in seguito.

***

Seguono questi capitoli: La miccia doveva durare un minuto ma si consumò in 50 secondi – Chi c’era davvero nel commando gappista? – Le vittime dimenticate di Palazzo Tittoni – Un partigiano di “Bandiera Rossa” morto in via Rasella – i comunisti intransigenti erano contrari agli attentati terroristici – L’Unità clandestina rivendicò le azioni gappiste ma era soltanto un giornale fantasma – Dopo la liberazione di Roma l’Unità arruolò ufficialmente i GAP nel P.C.I. – La popolazione romana disapprovava l’attentato – I finanzieri antitedeschi e via Rasella – In Roma liberata il sedicente “Nicola Gori” uccise il finanziere Barbarisi che era stato membro del “Fronte Clandestino della Resistenza” – L’oro della Jugosavia era nascosto a Roma – Il questore Caruso era un abile cercatore dell’oro nascosto – Il viaggio di Rosario Bentivegna e la consegna dell’oro a Tito – La bomba venne collocata davanti al palazzo dove nel 1922 abitò Mussolini – La rappresaglia nazista era stata annunciata da tempo – La questura di Roma era piena di poliziotti doppiogichisti – Il 7 marzo i fascisti avevano scoperto il deposito dell bombe e l’archivio segreto dell’apparato militare comunista – L’antifascismo romano era diviso ed infiltrato da molti confidenti – I gappisti dipendevano da Amendola, Bauer e Pertini ? – I gappisti fuggiaschi trovarono rifugio in un commissariato di polizia – Il poliziotto Marcello Guida collaborava con la Resistenza – La singolare morte di ‘Mauro di Mauro’ redivivo a Novara.

Roberto Gremmo

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