LE VERITA’ DIFFICILI 2 – L’agguato al reggimento “Bozen” in via Rasella, i processi sulla “legittima azione di guerra”, alla ricerca della giustizia

16 Marzo 2024
Lettura 7 min

di Roberto Gremmo –  La bomba scoppiata il 23 marzo 1944 in via Rasella non colpì dei soldati di un esercito occupante ma dei poliziotti in servizio d’ordine pubblico che, oltre tutto, avevano le armi scariche.
Fin dal 1975 un’accurata inchiesta giornalistica pubblicata da Hermann Frass sull’autorevole periodico “Historia” ha fatto chiarezza su questo aspetto di sicura importanza.
Il reparto preso di mira dai ‘gappisti’ era il reggimento “Bozen” composto da montanari e contadini sudtirolesi di lingua tedesca costretti ad arruolarsi e costretti a firmare una dichiarazione in cui si professavano ‘volontari’.

E’ certo però che “[i] richiamati ricevettero il loro “Soldbuch” (libretto personale) rilasciato e firmato dal comando di reggimento. Ed ebbero anche il grado di “Unterwachtmeister” che nella polizia significava soldato semplice. Tutti i superiori, ufficiali e sottufficiali erano tedeschi e i loro gradi non avevano nulla di simile a quelli della Wehrmacht (maggiore, capitano, tenente) o a quelli delle SS che erano profondamente diversi (Sturmfürer, Unterstrumfürer ecc.), questa precisazione è utile per dimostrare che quegli uomini non erano delle SS efferate”.


Dopo un periodo di sommario addestramento a Colle Isarco, i malcapitati montanari diventati loro malgrado poliziotti in armi, trasferiti a Roma, avevano iniziato un nuovo periodo d’addestramento.    
Erano considerati impreparati ed inadatti persino per i modesti incarichi di presidio e sorveglianza perché il tedesco che li comandava, il maggiore Dobberick “non aveva una grande opinione di questi suoi nuovi uomini, li chiamava “teste di legno tirolesi”, gli davano ai nervi quei montanari taciturni e miti.
Per lui, ufficiale di tipo prussiano, essi erano troppo lenti, senza scatto, poco adatti al combattimento. E, come se non bastasse, erano incredibilmente cattolici e privi di entusiasmo nazionale. Erano solo dei contadini superstiziosi, come ebbe a definirli il generale Mälzer”, si legge.

Quegli spaesati montanari erano finiti in una città teoricamente non in guerra perché Roma, città che ospitava il Pontefice cattolico, era stata dichiarata ‘Città Aperta’ e dunque nessuna formazione militare vi si poteva stabilire in modo permanente.    
Per non violare in modo smaccato l’immunità della città, subdolamente e furbescamente, “i tedeschi avevano creato quel battaglione di polizia proprio per controllare in qualche modo la popolazione, affiancando il comando SS e altri gruppi dipendenti da comandi speciali che non erano considerati reparti militari”.

I poliziotti sudtirolesi erano stati costretti a seguire per più mattine un corso d’addestramento e quel fatale 23 marzo era l’ultimo giorno previsto per le esercitazioni di tiro. Tuttavia gravava su di loro un triste presagio, probabilmente perché si erano diffuse voci allarmistiche o c’erano state incontrollabili segnalazioni spionistiche. A Roma mezza città spiava (con profitto) l’altra.

Quel giorno gli agenti del “Bozen” erano particolarmente nervosi e preoccupati e, infatti, “[a]lcuni superstiti ricordano che la sera prima dell’attentato i posti di guardia erano stati rafforzati e gli uomini sollecitati alla massima attenzione. Poi il 23 marzo venne dato l’ordine di uscire con i fucili carichi e il colpo in canna, cosa che non era mai avvenuta. Ma qualcuno dimenticò di rinnovare l’ordine per il rientro, sicché la compagnia, tornando dall’esercitazione, aveva i fucili scarichi”.

A guerra finita, i reduci del “Bozen” non vennero inquisiti in alcun modo per la loro attività e addirittura “con legge 3 aprile 1958 furono considerati combattenti ed invalidi delle forze armate italiane”.

Il dottor Rosario Bentivegna ha sostenuto per tutta la vita che l’attentato di via Rasella fu “una legittima azione di guerra” di partigiani che sarebbero stati a tutti gli effetti soldati dell’esercito italiano.

In un procedimento per danni intentato da alcuni parenti di vittime delle stragi ardeatine nei suoi confronti e contro Carlo Salinari, Franco Calamandrei, Sandro Pertini, Giorgio Amendola e Riccardo Bauer “[l]e ragioni degli attori furono disattese e il Tribunale di Roma, 1° Sezione Civile, con sentenza del 9.6.1950 respinse ogni richiesta motivando che l’attacco di Via Rasella fu un “legittimo fatto di guerra che si riallaccia alla resistenza”.


La Corte di Appello di Roma, 1° Sezione, con sentenza del 5.5.1954 confermava la sentenza di primo grado e nella motivazione dava atto che l’azione partigiana di Via Rasella fu un atto lecito, legittimo atto di guerra, come tale meritevole di speciale menzione.
I convenuti furono considerati non rei ma combattenti e “le vittime per quella azione martiri caduti per la patria”.

Infine la Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Civili, con sentenza del 9.5.1957 rigettava il ricorso dei famigliari delle vittime”.
Queste conclusioni giudiziarie non erano definitive.

Provocando un coro di critiche, il 16 aprile del 1998 il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma Maurizio Pacioni doveva ancora una volta esaminare la tragedia di via Rasella perché i parenti di due civili rimasti uccisi nell’attentato, Iaquinti ed il tredicenne Pietro Zuccheretti, quelli del caduto alle Ardeatine Romolo Gigliozzi ed il signor Giorgio Forti segretario nazionale del “Comitato di difesa del cittadino” avevano denunciato per strage il dottor Bentivegna, Pasquale Balsamo e Carla Capponi.

Il giudice Pacioni dispose l’archiviazione del provvedimento ma in merito all’attentato “[e]scludeva pertanto che il fatto potesse qualificarsi “atto legittimo di guerra” ravvisando invece “tutti gli estremi oggettivi e soggettivi del reato di strage”.

Un’affermazione pesante come un macigno e d’una portata dirompente, ben poco mitigata dalla decisione dello stesso giudice di chiudere il procedimento senza sanzionare i tre ‘gappisti’ poiché “[r]iteneva, sulla base degli atti di indagine disposti, fosse stato progettato ed attuato sicuramente ai fini patriottici indicati dal Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 96 del 1944, e disponeva di conseguenza l’archiviazione degli atti dichiarando estinto il reato per amnistia”.
 

“Stragisti”, ma per la Patria? Una bestemmia, agli occhi di Bentivegna e dei suoi due compagni che ricorsero immediatamente alla Corte di Cassazione sostenendo che il giudice non aveva titoli per giudicare il valore di quell’attentato, ritenuto più che legittimo dalle “Sezioni Unite Civili” della Corte di Cassazione e protestando che la sbrigativa archiviazione avrebbe causato un vero e proprio danno d’immagine ai ricorrenti.

Queste rimostranze ottennero favorevole ascolto e la parola definitiva giunse nell’estate del 2009 quando la Corte di Cassazione stabilì una volta per tutte che l’azione di via Rasella fu un “atto di guerra contro l’esercito nazista occupante”.

Le sentenze vanno sempre e comunque rispettate ma certamente non sono i documenti giudiziari a scrivere la storia.
La conoscenza della realtà che poteva essere sottoposta all’alto ed equanime giudizio dei magistrati negli anni ‘50 era comunque differente da quella emersa da nuove ricerche che si sono sviluppate in seguito.
Tuttavia, benché brandita talvolta come una clava per tappare la bocca a chi si mostra critico nei confronti di quella che Pietro Secchia definiva “beatificazione della Resistenza” la legittimazione dei partigiani come forza armata fondante della Repubblica democratica appare non solo legittima ma doverosa.

Furono loro infatti a permettere ai partiti politici ‘ciellenisti’ di cui erano espressione (in particolare a quello togliattiano) di presentarsi come autentici eredi della tradizione risorgimentale italiana.
Poiché il fine, machiavellicamente, giustificava i mezzi, le loro attività, quali fossero, erano ovviamente scusabili.    


Qual era il fine? La cacciata del tedesco invasore? La liberazione nazionale? La democrazia? La giustizia sociale? A parole tutte o quasi queste cose, ma nei fatti ogni formazione partigiana, nella sua autonomia, lottava anche per l’egemonia (meglio ancora: il monopolismo politico) delle forze di cui era espressione.
Questo spiega i contrasti e la forsennata concorrenza fra formazioni diverse, le contraddizioni nella scelta degli obiettivi da colpire e la difficile o solo formale collaborazione fra di loro.

Quella di via Rasella fu comunque un’azione di tipo militare eseguita da soldati senza stellette, opera di coraggiosi uomini della Resistenza, disciplinati esecutori delle direttive dei vertici antifascisti ma proprio per questo, per favorire la ricerca storica, i ‘gappisti’ che ne furono protagonisti avrebbero dovuto sentire il dovere morale di essere chiari, sempre.
Cosa che è avvenuta?
 

Proprio Rosario Bentivegna che molto ha scritto su quella vicenda ha fornito nel tempo versioni poi smentite da altri protagonisti.
Nei due libri che ha dedicato all’episodio, Bentivegna rievoca il momento straordinario in cui, travestito da dipendente della nettezza urbana attraversò mezza capitale spingendo un carretto dell’immondizia zeppo di materiale esplosivo posizionandosi in via Rasella, pronto a colpire un reparto di militari sudtirolesi della riserva, a suo dire “macabri e ridicoli”, che con “le voci straniere” rappresentavano “un oltraggio al cielo azzurro di Roma”.

 Bentivegna sostiene d’aver acceso la miccia dell’ordigno ad un cenno d’un compagno, Franco Calamandrei detto “Cola” che “aveva raggiunto l’angolo di via del Boccaccio e si era fermato” e da quel luogo l’avrebbe avvertito togliendosi il berretto dopo essere stato superato dalla colonna tedesca ma egli stesso al processo contro Kappler aveva dichiarato che il suo compagno “si trovava in fondo alla strada”.

 Lo conferma Franco Calamandrei scrivendo d’essersi avviato per via Rasella e dopo aver scorto la colonna, “annunciata dal solito canto nordico”, mentre imboccava la strada, “mi tolgo il cappello e mi incammino per via del Boccaccio verso il Tritone. Lo traverso, salgo fino in via Sistina, e odo l’esplosione”.
Sempre Bentivegna racconta che dopo aver visto “Cola” dare il segnale si tolse anch’egli il berretto perché “era quello il segnale con il quale avvertiv[a] che la miccia era stata accesa. Tra 50 secondi esatti ci sarebbe stata l’esplosione”.
 

Questa lettura pare pericolosa. Rischiosa, perché la presenza di civili sul percorso dei soldati poteva allarmare i tedeschi; assolutamente superflua, perché da metà via Rasella dove sarebbe stato parcheggiato il carretto esplosivo si vede benissimo il fondo della strada, tanto più se davvero, come sostiene Bentivegna, i militari “venivano su cantando”.
Ma nel 1997 la versione trovò una clamorosa smentita da parte degli stessi protagonisti, interrogati dal magistrato nel corso d’un lungo e travagliato procedimento penale avviato contro di loro dai parenti delle vittime civili dell’attentato.

In quell’occasione, lo stesso Bentivegna dichiarò che Calamandrei, Salinari “ed altri” non ebbero alcun ruolo attivo nella micidiale ‘operazione’ ma “stavano dalla parte di via del Traforo e avevano funzione di sola copertura” ed ancor più esplicitamente Carla Capponi ricordò d’essersi trovata in basso, all’inizio delle strada e che “[l]a [sua] funzione era quella di ricevere da Pasquale Balsamo che a sua volta doveva riceverlo da Silvio Serra, il segnale che venivano avvistati i tedeschi e a [sua] volta risalire via Rasella e comunicarlo al Bentivegna: così avvenne anche se con molto ritardo” mentre Pasquale Balsamo affermò che Franco Calamandrei era semplicemente “presente all’azione con funzioni di comandante” e non disse nulla sulla dinamica rappresentata. A chi credere ? ­­
(2 – continua)

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