25 aprile, la resa infinita dei conti

24 Aprile 2021
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di ROMANO BRACALINI – Non occorre aspettare un altro 25 aprile della discordia (con la replica prevedibile del 1° maggio), per veder confermata l’incapacità congenita, culturale, meglio antropologica, per questo Paese di
darsi una forma moderna e di gettare amare una volta per tutte le anticaglie del passato, i residuati dell’ideologia pestilenziale, le schiume dell’odio, le rivalità regionali, gli impedimenti di ogni sorta, i lacci e i laccioli che l’attanagliano e lo destinano a vecchie e logoranti battaglie di fazione e all’immobilismo vigile e vendicativo.
L’Italia è forse il Paese più antimoderno d’Europa. Il Paese che come certe collettività marginali dell’Est europeo vive col pensiero eternamente rivolto al passato. Si dice, non senza ragione, che in Italia, fragile entità di popoli divisi, un regime eredita l’altro, senza quasi scartarne nulla, così che nulla si rinnova perché nulla viene eliminato e destinato all’archivio della storia. Un confronto, anche appena accennato, con la Francia o con la stessa Spagna, uscita da un lungo letargo, ci relega nella schiera ultima dei Paesi che non hanno ancora chiuso i conti col passato. Uomini politici che a Madrid o a Parigi sono un ricordo, quando non un bassorilievo d’ossequio marmoreo, in Italia sono ancora vivi, attivi e vegeti. Calcano le scene della politica matusalemme che inaugurarono il Parlamento repubblicano nel 1948, all’indomani della sconfitta della monarchia complice del Fascismo e della disfatta militare.


Le ideologie totalitarie, mai accolte nel mondo civilizzato, trovano qui ancora migliaia di adepti e di seguaci raccolti sotto le scalcinate e logore bandiere dell’odio; e dove può capitare se non da noi che per la festa della liberazione, 60 anni dopo, si rinfocoli l’odio atavico nell’antitesi Fascismo/antifascismo quando il comune denominatore è il medesimo istinto di sopraffazione e di violenza fascista? Che altro sarebbero le frange estreme della sinistra antagonista, ora normalizzata dal “nuovo” che avanza, se non gli stessi sputati epigoni del vecchio squadrismo fascista degli albori? Che altro sarebbero le dimostrazioni d’odio politico antisemita, col rito beota delle bandiere israeliane date alle fiamme, e l’insulto al vecchio padre partigiano in carrozzella della Moratti, se non la ripetizione pedissequa di un quadro di violenza fasci-sta dipinto di rosso? C’è alla base di tutto questo, un equivoco storico che va spiegato.


L’anomalia parte da lontano. Ci soccorre Machiavelli che per primo aveva capito che la sola unità possibile l’aveva fatta la Chiesa cattolica romana, la quale non permise secoli dopo che altri la facessero contro il suo desiderio di secolare dominio egemonico. Il Risorgimento si risolse in un conflitto di poteri, che altrove sarebbe stato inammissibile. Il guaio è che in Italia la Chiesa dominava non solo le coscienze, ma s’era fatta potere temporale, governo sulla terra, Stato teocratico assoluto e vessatorio. Era la Chiesa della Controriforma che combatteva l’”errore” e l’apostasia con i tribunali crudeli dell’Inquisizione, con i processi senza pubblicità e senza difesa, col taglio della testa senza prove. A Roma il marchio dell’assolutismo è impresso su ogni pietra. Dirà Ferdinand Gregorovius, il grande storico tedesco di Roma: «Nel luogo più putrefatto della sto-ria si viveva come nel sogno».

Il cinismo cattolico trasmigrò nella prassi politica e di governo fino ai nostri giorni. Il metodo della controriforma contrassegnò le ideologie moderne che amavano presentarsi come rivoluzionarie, nella realtà delle cose italiane ogni regime che si affermava era reazione, violenza, abominio. Il Risorgimento liberale che intendeva abbattere l’arbitrio, l’assolutismo e le tentazioni egemoniche di un Cattolicesimo antimoderno venne sconfitto dalla ragion di stato, non ebbe né agio né tempo di formare una corrente politica di stampo liberale, moderna, europea. Dal connubio clerico-reazionario tra Stato e Chiesa prevalse l’istinto della controriforma, che è diventatata una costante della vita politica italiana. La paura latente di perdere il potere e di soccombere al “nemico” convinse tutti i governi a rinviare le riforme e a lasciare inalterata la forma e la condizione dello Stato.


La cautela come forma consigliata per durare fu la sigla e il vanto di ogni governo. Nella lotta tra gli opposti estremismi non poteva che vincere chi dei due si sarebbe mostrato più forte. Ma da una guerra emerge la fazione rinnovata. Dalla violenza nasce altra violenza. Una classe liberale moderna basata su concetti di civiltà in Italia non si è mai affermata. Non ce ne fu il tempo perché una democrazia liberale non si inventa dall’oggi al domani. Lo Stato italiano nasceva piuttosto da un calcolo di re e principi ambiziosi e da una prova di forza militare con tutte le astuzie della diplomazia e dei patti di alleanza. Non ce ne dobbiamo meravigliare.

In Italia la ragione si è sempre basata sulla forza e sulla violenza. Ha ragione chi urla di più. Il deficit di democrazia liberale che lamentiamo trova il suo fondamento storico in questo retroterra di confusione, di mani-cheismo e di sostanziale arbitrio. Il Fascismo non fu forse il regime più adatto agli italiani? E la Chiesa non trovò conveniente venire a patti col Fascismo nella comune avversione della libertà di coscienza? Il panorama politico di fine Ottocento, che quasi immutabilmente riflette quello d’oggi, si presentava così diviso. Da una parte una Chiesa arroccata nel proprio rifiuto, incapace di digerire la formula cavouriana: «Libera chiesa in libero Stato», che sola le avrebbe reso un ruolo di dignità e di modernità, come poi avvenne con la caduta del potere temporale dell’ultimo Papa-re. Dall’altra lo schieramento dei nuovi partiti “rivoluzionari” e popolari, non di origine risorgimentale, come il socialista che avrebbe costituito la matrice del fascismo e del comunismo. Tutte queste forze illiberali, compresa la Chiesa che forniva il miglior esempio di reazione istintiva alla modernità e alla democrazia, mantenevano un precario equilibrio guardandosi in cagnesco, l’un contro l’altro armati, senza volgere lo sguardo altrove che alla propria cadrega, ciò che condannava il Paese a un’eterna attesa, all’immobilismo politico, all’inerzia del Parlamento, sempre ostaggio delle fazioni estreme, e, in una parola, allo stile italico della “controriforma”.

Un regime ereditava l’altro e non cambiava nulla, ogni governo aveva solo la preoccupazione di durare e durava di più (anche se durava poco) quello che non faceva nulla, perché nel fare qualcosa si rischiava di sbagliare e di pagarla cara.
La Dc ha governato per mezzo secolo con la sola preoccupazione di far da argine al comunismo. Nel frattempo l’Italia invecchiava, perché nessuno faceva nulla. Le nostre autostrade, le nostre ferrovie, i nostri servizi di base sono i peggiori d’Europa. La Spagna, partita con mezzo secolo di ritardo, ci sta superando. Perfino il Portogallo ha fatto più progressi di noi. Perché? Ma perché i partiti italiani che vanno al governo spendono tutto il loro tempo, non a governare, bensì a combattere i partiti “nemici” dell’opposizione. E così, siamo arrivati ai nostri giorni. In piazza si va armati contro il “nemico”, che cambia di volta in volta ma è sempre lo stesso, e se il nemico non ci fosse bisognerebbe inventarlo.

Non c’è la regola dell’alternanza che vige in un sistema costituzionale liberale, ma l’istinto della presa del potere propria degli assolutismi che ignorano la prassi liberale. Può meravigliare che l’Italia sia entrata nel terzo millennio con la mentalità politica dell’Ottocento e con partiti che si sono formati sulle dottrine politiche di due secoli fa?

da Il Federalismo, settimanale diretto da Stefania Piazzo

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