Speciale 5 Giornate – Cattaneo, la differenza incompresa tra essere militanti e militonti

17 Marzo 2021
Lettura 14 min

di STEFANIA PIAZZO – Cattaneo non solo è stato poco studiato, ma usato solo come bandierina per farsi un nome, per farsi vanto e pubblicità di un pensiero e di un’opera ancora oggi sottovalutata. Vergognarsi è poco… Ha scritto di tutto, i politici che lo sbandierano ne avranno letto solo i titoli…. A cominciare dal Politecnico…. E’ da qui che vogliamo ripartire….

Ma Cattaneo doveva proprio chiamarlo Politecnico? Il nome non affascina. Anzi, allontana. Invita di corsa allo “schivo”. Non vi si intravvede alcun messaggio politico, alcun contenuto con indicazioni “umane”. Non un briciolo di compassione
letteraria, di speculazione filosofica, di fare indagatore nella mente e nel cuore del pensiero. Niente, macchè. Si immagina un contenitore di carta con una somma di calcoli, di noioso ragionamento ingegneristico, di aride dissertazioni. Proprio Politecnico, accidenti a lui, doveva chiamarlo? Almeno i suoi predecessori erano stati un po’ più conviviali: dire Il Caffè faceva, ammettiamolo pure, un altro gran bell’effetto. Te li immagini seduti a fumare e bere assenzio. E quindi a far andare la testa. Dei grandissimi davvero! Ma il Politecnico invoca solo un calcolatore, dei numeri da costruzioni e topografia per geometri un po’ evoluti. Eppure non tutto ciò che si vede, che appare, è esattamente ciò che realmente è. E scopri, cammin facendo, che altro nome non poteva inventare Cattaneo per rimbambire la censura, dandole a bere che quest’opera dovesse essere solo un raccoglitore di idee per ingegneri. Dimostrazione cattaneana un po’ provocatoria come a dire che, in ogni periodo politico, dove li metti stanno, modellandosi e incrostandosi acriticamente al sistema. Tuttologo in effetti e in ogni caso il Politecnico un po’ lo è, ma per invocare il progresso attraverso lo studio delle lettere, delle invenzioni, delle piccole patrie, della funzionalità dei piccoli stati. Non per calcolo matematico. Rincuorante, molto rincuorante, senza che i politecnicisti a breve raggio d’azione se ne abbiano a male (e se accade, amen).

Di loro, di quelli retori e sorpassati, ogni tanto il mondo può anche averne bisogno, purché a modiche dosi.

D’altra parte il Politecnico, pur ereditando la fregola illuministica di voler raccogliere l’universo mondo in un lavoro editoriale, è una delle più alte espressioni del tormentato, inquieto, positivo animo di Carlo Cattaneo. Un cuore infranto dalla storia matrigna, dalle libertà negate, dalle lusinghe politiche dell’Italia che prometteva male già allora, forse ancora più di adesso.
Ma perché avvicinare Carlo Cattaneo attraverso il Politecnico?
I numeri, paradosso che una volta tanto si può tollerare per la causa, danno ragione a questa scelta: nata nel ’39 quest’opera, con i suoi 300 scritti, 114 fascicoli e 27 volumi, raccoglie circa i due terzi dei testi del pensatore lombardo. Non la si può ignorare. Oltre che rappresentare quindi per i tempi un vero e proprio evento editoriale, ci apre due finestre sulla storia: nella prima serie, dal ’39 al ’44, siamo in pieno lombardo-veneto (con ben sette volumazzi da leggere senza sosta); nella seconda serie della rivista, dal ’59 al ’65, ci tocca viaggiare nel Regno dell’Italia unita.

E sono drammi da prendere in compagnia dell’assenzio. Di Cattaneo c’è tutto l’approccio alla cultura e alla politica, la mediazione intellettuale, l’intransigenza davanti al compromesso. E la responsabilità amata per un progetto: «Il giornale è mio – scriveva in una lettera al padre Ottaviano Ferrario, con quale aveva condiviso l’inizio delle pubblicazioni -: mio primieramente secondo tutte le leggi divine e umane perché l’ho fatto a mio rischio e pericolo, e trascurando e sacrificando a questo altri miei interessi di maggior momento. È mio perché intrapreso col patto che fosse mio anche in faccia alla censura».

cattaneo

Il lavoro è a dir poco mostruoso: nei primi 5 anni in 4.300 pagine raccoglie indagini e saggi che coprono pressochè tutto l’arco delle scienze: demografia, architettura, ragioneria, pubblica istruzione, geografia, monete, banche, geologia, storia politica e civile, storia delle scienze, discipline carcerarie, dogane, strade ferrate, idraulica, chimica, agricoltura, antropologia, archeologia, dialettologia, linguistica, critica letteraria italiana e straniera. Insomma, un mondo alla maniera illuministica, dell’enciclopedico Caffè ma anche nel solco del positivismo, dell’azione dell’uomo nella storia. Lo ricorda anche il critico Mario Fubini riconoscendo quanto in lui sia stato dominante quel «sentimento della presenza del passato, di tutto il passato, nella vita contemporanea» e, insieme, «quel sentimento, la persuasione della necessità di rifarsi a quel passato».

«Uomo di penna e di tavolino, non di comizi», per dirla all’Ernesto Sestan, Cattaneo fece del Politecnico la sua tribuna parlamentare, facendo confluire l’illuminismo e il riformismo lombardo, identificando la scienza con la tecnica. Ma questo era solo un passaggio necessario per arrivare al cuore: intrecciare le tradizioni culturali lombarde (nelle famose Notizie del ’44) fondamentalmente umanistiche, dopo l’eredità di Verri e Beccaria, col culto della scienza.
Vuoi sapere cosa sta accadendo fuori dalla porta di casa? Cosa leggono e scrivono gli altri popoli? Che lingua parlano e perché?
Come se la cavano nei viaggi, nei trasporti? Come sopravvivono e che s’inventano per lavorare e commerciare? Il Politecnico dà notizia di ciò che si fa nel mondo; l’oggetto delle attenzioni critiche è costantemente il tema del progresso, l’esigenza di approntare strumenti per stare al passo con gli altri Paesi europei. In altre parole, in una chiave di logica modernità, fare concorrenza, innovazione, passando attraverso la conoscenza dell’animo umano.

Non a caso, il grande critico Sestan ebbe modo di scrivere in tempi non sospetti (nel 1969), che «Cattaneo superò Cavour in ampiezza di visione culturale. Tutti, se non quasi gli uomini del Risorgimento, gli furono per le stesse ragioni lontani». Grazie, Sestan. Non è un caso, ma per qualcuno potrà essere una sorpresa, scoprire che nella prima serie della rivista c’è un Cattaneo indagatore, giornalista, inviato, filologo, linguista militante nelle vesti di critico letterario, di scopritore e recensore delle opere dal valore morale e di conoscenza delle vicende di libertà di altri popoli europei. Nella seconda serie si scatena nell’intendimento di promuovere l’azione politica ancora mediante gli studi e le discussioni intorno ai problemi del nuovo stato (l’ordinamento militare, le autonomie locali, la scuola, i problemi che generano miseria e analfabetismo…).

«Trattandosi di sviluppare a preferenza dell’elemento locale e municipale, l’elemento veramente scientifico e cosmopolitico, io mi sono prefisso che il Politecnico debba soprattutto rappresentare, in forma d’estratti dalle opere nuove e grandi, il progresso delle scienze e arti pratiche, mettendo in pronta luce le scoperte e abbandonando all’oscurità il rimanente. Non faremo critiche di libri ma studio di ciò che contengono, e costringeremo tutti gli altri a mirar alto con noi», scriveva all’amico Gaetano Strambio. Perché, si legge nel manifesto del Politecnico, «intendiamo farci quasi interpreti e mediatori tra le contemplazioni di pochi e le abitudini di molti. Abbiamo preso a guida il vasto e saggio concetto del Romagnosi, il quale nell’arte voleva unificare l’armonica soddisfazione di tutti i bisogni che accompagnano l’umanità; e quindi all’acquisto dell’utile e alla contemplazione del bello aggiungeva il morale sviluppo sì dell’individuo e dall’altro quello del consorzio sociale. Così si abbraccia l’uomo intero».

La parola diventa segno di libertà. L’uomo intero, geniale nello scavare fuori e dentro se stesso. La passione per la ricerca di opere da recensire rientra nella letteratura come strumento di battaglia civile, con uno stile originale che è il punto fermo del pensiero di Cattaneo: sono la passione per lo studio delle origini di un popolo, seguendolo sin dall’evoluzione della sua lingua, nella necessità di recuperare i valori, le tradizioni che esprimono l’anima di una nazione e tutto ciò attraverso le lettere, strumento di educazione e denuncia. Da qui l’importanza per Cattaneo delle traduzioni, che ci avvicinano alla storia di popoli lontani, esempio di civiltà e di coraggio e che ci permettono di guardare oltre la nostra letteratura e la nostra storia, con una passione per l’Europa sbilanciata verso i popoli (è il caso delle sue letture Il Romancero del Cid, il Goetz di Berlichingen, Kalevala, le poesie di Mickievicz…).

La letteratura espressione di dignità civile è basilare nella critica cattaneana, non priva di riferimenti per gli eventi risorgimentali, per le delusioni di una svolta mancata, di aspettative disattese, come dimostra in Foscolo e l’Italia, esaltando le doti del letterato uomo di lettere e soprattutto esule (anche se ne critica la rassegnazione: «L’idea di Foscolo sembra piuttosto una querela per ciò che ci sarà eternamente negato, che non il lucido presagio d’un futuro»). Stessa passione Cattaneo manifesta nel recensire Dante, esule in modi e circostanze diverse, ma comunque sempre esule. Così come il poeta polacco in fuga dal dominio russo, Adamo Mickievicz. A conferma ancora di questo “ufficio civile della letteratura”, le sue parole sul fiorentino nel Politecnico: «Dacché la nostra letteratura ha dovuto, per forza dei tempi, assumere dignità di ministerio civile e questa sola persuasione basta a conferirle decenza e dignità, era naturale ch’ella cercasse soprattutto di ricongiungersi ad uno scrittore che oltre all’essere più grande e più antico, era più profondamente impresso in quella splendida persuasione che le lettere siano un’irresistibile arma civile».

Proprio accennando alle ragioni del Politecnico, Cattaneo annotava: «…e tra quella scabra merce di locomotive e gasometri e ponti obliqui, mi sfuggì alcuno qua e là di quegli argomenti che hanno viscere». E, ancora, da leggere e meditare: «La nazione degli uomini studiosi è una sola: è la nazione di Omero e di Dante, di Galileo e di Bacone, del Wenner e del Linneo, e di tutti quelli che seguono i loro esempi immortali; è la nazione delle intelligenze, che abita tutti i climi e parla tutte le lingue. Al dissotto d’essa sta una moltitudine divisa in mille patrie discordi, in caste, in gerghi, in fazioni avide e sanguinarie, che godono delle superstizioni, dell’egoismo, nell’ignoranza stessa, come se fosse il principio della vita e il fondamento della morale e della società. L’intelligenza si muove al di sopra di questo caos; essa ha sparso in ogni parte libri, i giornali, i musei, le scuole (…). Il dover nostro – continua nella prefazione al secondo volume del Politecnico – è di accrescere nella patria che abitiamo, colla lingua che parliamo (…) il dominio delle intelligenze (…).

Dunque ogni idea vera e buona, da qualunque paese, da qualunque lingua ci arrivi, sia nostra, o lo sia immantinente, come se fosse germinata sul nostro terreno». Cattaneo resta ai margini del concetto romantico di nazione. Alla nazione che parla la medesima lingua e si richiama alle stesse tradizioni, contrappone la nazione di chi vive per il progresso: la nazione delle intelligenze. Non a caso, Cattaneo manifesta interesse per lo studio dell’ideologia sociale, per analizzare il rapporto tra l’uomo e l’umanità che lo circonda e al quale si rapporta, come singolo individuo. Bene ha espresso Norberto Bobbio in un vecchio saggio, Filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, questa ricerca improntata stando, per certi versi, se mi è permesso dirlo, al di sopra della dialettica global-local, offrendo però spunti credo per trarre il meglio da entrambi i fenomeni. Così Bobbio: «Il grande tema illuministico del progresso e, corrispondentemente, dell’arresto del processo o della decadenza e della corruzione delle nazioni fu l’oggetto costante, ricorrente e in ultima analisi unificante delle sue riflessioni di storico della lingua e dei costumi (…), e infine di filosofo che formula, traendole dal divenire dei popoli, le leggi di tendenza della storia e affida alle conoscenze di queste leggi il proprio ufficio di riformatore.

Non diversamente dalla Scienza nuova di Vico, cui Cattaneo s’ispira pur rifiutandone questa o quella interpretazione particolare, e della filosofia dell’incivilimento del Romagnosi, che tiene a modello, la sua opera di filosofo è, considerata globalmente, una filosofia della storia, cioè una continua meditazione sulla vita delle nazioni, allo scopo di strappare attraverso ricerche positive e col sussidio di tutte le nuove scienze dell’uomo (…) il segreto del nascere e del morire delle civiltà».

È la negazione della predestinazione nel ruolo dei popoli, grande “fissa” romantica. È piuttosto lo studio dei popoli attraverso il raffronto delle loro opere letterarie e il diverso modo di rappresentare gli eventi storici nei testi, come nel caso del Don Carlo di Schiller. E così anche la linguistica diventa strumento di comprensione della storia degli uomini, dell’evoluzione del progresso e testimone del passaggio di eventi che hanno segnato la cultura di un popolo. È il suo culto per un passato antichissimo (vedi Del nesso tra la lingua valaca e l’italiana o Della conquista d’Inghilterra per Normanni o nella Sardegna antica e moderna) o medievale e non
limitato alle zone europee da recuperare non limitato alle zone europee da recuperare non solo attraverso fonti leggendarie o poetiche. È soprattutto la passione per le indagini etnografiche. «Lo studio delle lingue è strettamente connesso allo studio della storia di un popolo; non è pensabile separare l’aspetto linguistico – scriveva passionalmente nel Politecnico assai poco tecnico – dagli altri che compongono il profilo dell’incivilimento. La formazione di una lingua è connessa alle conquiste logiche di un popolo per cui tra linguistica e filosofia vi sono elementi comuni, sono due scienze che dovrebbero procedere parallelamente».

E per l’Italia propone, coerentemente, una lingua che non debba essere abdicazione rispetto all’egemonia esclusiva del linguaggio toscano. Della lingua dialettale infatti ne esalta «l’utilità sociale, civile e morale, l’efficacia progressista, l’effetto antiretorico e antipedantesco, l’energia positivamente riformatrice, l’efficacia di rappresentare certi pensieri». Nel saggio Sui milanesi e il loro dialetto tocca punte di grande lungimiranza: «Molti affettano un immeritato dispregio della poesia vernacola, che riguardano come adulazione alla gloriola municipale e alla rozzezza della plebe a danno dell’unità letteraria e morale. Ma se questi volessero rintracciar tutte le cause di quel primato che la nostra città, al dir di non pochi, ha esteso sulle lettere di tutta la penisola: dovrebbero forse riconoscere che a dare agli spiriti una tempra sì calda e ardita, contribuì non poco quell’impulso che l’inarrivabile derisore di tutte le nostre debolezze diede al senso comune e alla natural franchezza del nostro popolo (…)». D’altra parte non si risparmia nelle critiche contro chi ha «razzolato lungo i pagliai di Val d’Elsa o dentro gli ossari della Crusca».

Che la nazione non sia «un grumo di ceralacca» lo ribadisce affermando che «solo chi crede che i fiori facciano primavera e non la primavera i fiori, può credere che i versi e le prose facciano le nazioni, e non siano meri frutti e indizj della loro vita politica e morale».

Ma non gli basta: «La lingua costituisce una parte sempre maggiore dei nostri destini. La scienza linguistica già divenne arma nuova di politica (…). Le lingue danno ai popoli la coscienza d’essere ciò che sono; segnano i termini ove hanno una patria, un ricovero al loro nome, un santuario ai loro diritti». Ma i diritti, il progresso non arrivano gratis. Il criterio dell’utile, dell’applicazione pratica alla vita, la strada dell’emancipazione e quindi di un benessere più diffuso passano attraverso lo sviluppo delle tecnologie, alle quali dedica volumi del Politecnico in forma non tecnicistica.

È il «progresso deliberato e perpetuo», è la storia naturale del sapere umano attraverso l’indagine dell’uomo concreto nel mondo delle nazioni, la ricerca del conoscere per il fare, il richiamo alla filosofia, al diritto ma anche alla concretezza dell’economia cui Cattaneo dà spazio nel Politecnico senza diventarne suddito. Difatti «oggi vogliamo nella letteratura la scienza, non nel senso didattico, ma nel senso dell’erudizione vasta, profonda, nel senso della solidarietà delle nazioni, nel senso umanitario, nel senso della libertà». Qualsiasi arte deve essere un momento culturale per promuovere la comprensione delle cose e l’arte della parola è al servizio di questo ufficio
prestandosi alle scienze, alla tecnica, alla politica. Per questo rileggere il Politecnico consente di apprezzare la grandezza di questo precursore intellettuale delle piccole patrie, di capire di più cosa scaturirono nella sua intimità i fatti politici risorgimentali. Ricordiamone solo alcuni.

Diventata illusione, anzi, persa anche l’illusione di una riforma federale dopo gli eventi del ’48 sotto l’egida austriaca, Carlo Cattaneo in tutti i suoi scritti ha continuato ad auspicare una graduale evoluzione degli Stati italiani verso gli ordinamenti liberali per arrivare ad un patto federativo, come nella Svizzera che conosceva e viveva. «La sua vita era semplice e frugale: un pasto al giorno; non sigari, poco vino, sei ore di riposo; l’intera giornata dedicava ai suoi studi filosofici, alle sue lezioni e agli articoli che stava preparando»: una sintesi davvero efficace, stringata, fornita dagli amici Jessie e A. Mario, che ci dà l’immagine di un Cattaneo perennemente innamorato dei suoi studi, affaticato sotto il peso degli anni ma instancabile nella ricerca, davanti ai libri. Lo studio riempiva le sue giornate tanto che, nonostante le richieste pressanti di rientrare in Italia per porsi a capo di un partito, Cattaneo declinò sempre l’invito. Non volle saperne di essere coinvolto nella gestione dello Stato alla vigilia dell’unità, si limitò ad appoggiare la battaglia per sconfiggere l’Austria nel ’59, respingendo però i rinnovati appelli per il suo rientro nel capoluogo lombardo, dove lo si voleva nel ruolo di guida politico-morale.

Rientrò solo nell’agosto del ’59, per leggere all’Istituto lombardo di Milano la prima delle memorie che costituiscono la “Psicologia delle menti associate” (si tratta di cinque letture tenute da Cattaneo al Regio Istituto Lombardo di Scienze, Lettere e Arti tra il ’59 e il ’66).

Nello stesso anno venne nominato al Parlamento di Torino, eletto nei tre collegi di Milano V, Cremona e Sarnico. Tuttavia il carattere, il temperamento, il suo attaccamento ai principi di libertà e indipendenza intellettuale, lo portarono a non partecipare ad alcun lavoro parlamentare: si rifiutò anche in quest’occasione di piegarsi ai compromessi con le istituzioni sabaude, e non prestò giuramento di fedeltà allo Statuto. Era Carlo Cattaneo! Il Cattaneo che si sarebbe opposto al plebiscito per l’immediata annessione del Regno delle Due Sicilie, preferendo una via costituente, con elezioni di parlamentari siciliani e napoletani che potessero trattare dell’unione nazionale secondo una linea federalista.

Ma la storia fu un’altra: dopo il rigetto della sua “causa” per un Sud politicamente federalista, rifiutò in seguito le candidature offertigli a Milano, Genova e Gallipoli. Respinse nel ’67 il titolo di Gran Maestro dell’Ordine del Grande Oriente. Disse no anche ad una cattedra di filosofia nel capoluogo lombardo preferendo concentrarsi sulle ricerche e gli studi per il suo Politecnico, ormai alla sua seconda serie di pubblicazioni.

«Io spero – scriveva ai suoi studenti del liceo cantonale – che i liberi e sinceri studi vinceranno a lungo andare anche le menti più avverse. La filosofia è la ragione dell’uomo che aspira a conoscere la ragione dell’universo. Anche coloro ai quali una fatale disciplina fa benda agli occhi, verranno infine a rendere testimonianza ai liberi indagatori del vero». Verità, quanto ci costi.

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Direttrice: Stefania Piazzo
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