Cominelli: Per cambiare serve un “nuovo crollo del Muro”: una massa di cittadini con chi tradirà le logiche dei vecchi partiti

3 Gennaio 2021
Lettura 5 min

di Giovanni Cominelli – La chiave di ingresso nel 2021 l’ha data il Presidente Mattarella nel suo discorso di fine anno: “Questo è tempo di costruttori…”. Non si tratta di ri-costruire, ma di edificare ex-novo, in nuovi luoghi, con nuovi materiali, con nuovi progetti. Come si deve fare dopo un terremoto. Il suggestivo appello del Presidente fa fatica a smuovere il cuore duro degli uomini e donne della politica e dei partiti. Perciò l’anno 2021 si annuncia difficile come quello che abbiamo lasciato alle spalle. La sapienza retorica di Mattarella interpella i cittadini, in primo luogo, ma fondamentalmente i partiti.

Quali le responsabilità dei cittadini? Essi possono delegare molti compiti pubblici, ma non quello dell’intelligenza del mondo. La deriva populistica e giustizialista di questi ultimi due decenni non è dovuta soltanto al fallimento oggettivo della democrazia dei partiti e del sistema dei partiti in ordine al governo del Paese, è anche il prodotto di una mentalità assistenzialistica e passiva dei cittadini, che hanno delegato alla politica il compito elementare di conoscere, leggere, interpretare il mondo.

I dati sconfortanti dell’ISTAT dicono che solo il 41% degli italiani arriva a leggere almeno un libro all’anno. Sono arcinote le statistiche della dispersione scolastica (15%), dei NEET (23,67%) – Not in Employement, Education or Training-, dell’analfabetismo funzionale (il 47%).

Il ripiegamento su di sé, sul proprio “particulare”, è l’effetto di una cittadinanza povera di intelligenza della realtà. Le radici spirituali del populismo/sovranismo stanno nell’ignoranza, che fa percepire il mondo solo come minaccia, come fonte di rischio e di paura. Si può osservare che negli anni della ricostruzione postbellica quelle percentuali erano peggiori e che non sono mancate, neppure allora, le minacce e le paure del mondo. Ma la classe dirigente politica aveva legittimato il proprio arrivo al potere, lasciando via libera alle dinamiche, spesso selvagge, e alle forze di ricostruzione.

In questi ultimi due decenni, invece, una parte di classe dirigente si è legittimata fornendo una risposta populista e sovranista all’accumulazione originaria di paura di fronte agli sconvolgimenti del mondo. Questa classe dirigente non si è proposta di scardinare le paure, offrendo un esercizio più raffinato dell’intelligenza del mondo, ma di confermarle e di gonfiarle, in un gioco di specchi e di retroazioni, che solo un traumatico evento esterno poteva spezzare. Ora, il Covid ha rotto più di uno specchio, ma non le cause che hanno generato le fughe e le paure del mondo.

Ed è qui che, ancora una volta, si urta contro l’intreccio gordiano delle responsabilità dei cittadini con quelle primarie della classe dirigente politica, forgiata dal sistema politico-istituzionale. E’ questo il cuore di tenebra del Paese, dove risiede il monopolio dell’avorio bianco, quello del potere.

Qui, nel cuore della politica, sta la resistenza alle riforme socio-economiche e politico-istituzionali, dopo la grande crisi di sistema degli anni 1989-94. Se non arrivano riforme, se persino il Recovery Fund e il MES e il NextGeneration EU sono catturati dentro le logiche del sistema pre-Covid, mediante un assemblaggio di vecchi progetti da parte del governo e di rivendicazioni corporative da parte dell’opposizione, ciò si deve alla resistenza del sistema politico, di chi sta al governo e di chi sta all’opposizione, gli uni e gli altri abbarbicati al passato, ostinatamente avversi ad ogni innovazione.

Qual è il nocciolo “razionale” di questa resistenza? La paura della perdita del potere o, per essere più precisi, dei poteri microfisici che i ceti politici di partito riescono ad accaparrarsi e a esercitare a fini di promozione sociale, carriere, status e fringe benefits.

Fare riforme socio-economiche, dare poteri nuovi e diretti di decisione ai cittadini, fare spazio all’imprenditoria, piegare la burocrazia amministrativa, ricondurre la magistratura nei suoi confini, spezzare il legame incestuoso con la TV pubblica e con le testate giornalistiche principali significa mettere a rischio gli attuali poteri dei partiti, cioè del ceto piccolo-borghese che li controlla, al di fuori di ogni trasparenza e di ogni legge di regolamentazione.

I partiti non ne hanno nessuna intenzione e si rimpallano ipocritamente le responsabilità dello stallo. Trasferire ai cittadini pezzi di potere è qualcosa che l’elite intende evitare come un suicidio. E chi sta momentaneamente all’opposizione? Ha lo stesso atteggiamento conservatore. Da anni assistiamo a questa noiosa altalena, per la quale le opposizioni del momento promettono cambiamenti epocali, se gli italiani daranno loro la maggioranza dei consensi. In realtà, intendono famelicamente occupare i posti liberati, senza straccio di un progetto alternativo.

Se leviamo lo sguardo sull’orizzonte storico, si deve constatare che l’élite politica innovatrice del CLN ha fondato la Repubblica tra il 1943 e il 1948, ha promosso lo sviluppo economico e culturale del Paese, ma poi ha perso slancio riformatore, si è chiusa nel cerchio conservatore del proprio potere.

La storia documenta molti casi di involuzione elitaria e conservatrice delle élites nate dai movimenti di liberazione. Lo si è constatato in Italia dopo il 1989. Ha resistito strenuamente, ha cambiato le sigle, ma il sistema dei partiti ,così come è uscito dal CLN del 1943, ha continuato ad essere l’architrave fissa del sistema politico-istituzionale.

Sono cambiate le sigle, ma non il meccanismo oligarchico. E’ la legge ferrea dell’oligarchia, direbbe il Michels. Il Mattarellum è stato il massimo livello di innovazione raggiunto, ma sempre dentro i confini dei vecchi assetti istituzionali di potere. Non è un caso che l’inizio del blocco dello sviluppo dati da allora, che da allora sia incominciato prima lo stallo e poi il declino. Ogni qualvolta si sono tentate innovazioni istituzionali, chi era all’opposizione e anche parte di chi stava al governo – è il caso del referendum del 2016 – vi si è opposto.

Servirebbe una politica che innova, una politica che inventa le istituzioni della partecipazione e della decisione del XXI secolo. Quella attuale non è all’altezza. I partiti sono diventati il principale ostacolo alla partecipazione dei cittadini alla politica. Non sono controllati dall’alto dalla legge, non sono controllati dal basso dagli associati. “La democrazia dei partiti” sta asfissiando la dinamica socio-economica del Paese. I partiti hanno fermato l’ascensore sociale, in combutta elettorale con le principali corporazioni del Paese.


Chi ha la forza di spezzare il circolo vizioso? Quis custodiet custodes?
La lezione che viene fornita dalle vicende storiche dei Paesi comunisti dell’Est europeo, a cavallo del 1989, mostra che l’innovazione politico-istituzionale e, dunque, socio-economica è stata possibile, combinando la forza del movimento di massa dei cittadini e spezzoni di classi politiche dirigenti, che hanno “tradito” le vecchie fedeltà.

Qui da noi l’ultimo movimento dal basso è stato quello del M5S e ne conosciamo l’esito conservatore, statalista, assistenzialista, parassitario.
Quanto a Renzi, ha provato lo schema dell’Est, ma ha fallito, sia a causa di una cultura politica incoerente, talora segnata dal populismo, sia a causa di gravi errori politici. Il suo tentativo è stato soffocato dalla maggioranza del sistema politico, che ha mobilitato i cittadini a difesa del sistema presente.
All’inizio del 2021, la situazione è dunque la seguente: il tempo delle attuali élites politiche non è quello dei “costruttori.


E i cittadini? Non hanno a tutt’oggi gli strumenti istituzionali per riformare la politica. Circa una buona metà è in diserzione astensionista, l’altra metà continua a dare fiducia a questo sistema dei partiti. Perciò il sistema è al momento bloccato.


In mancanza di un serio strumento referendario, che i partiti non hanno mai voluto, restano agli elettori i social media e dei leader politici che vogliano smuovere la palude. E la crisi al buio? Niente paura! Nel buio siamo già.

Per gentile concessione dell’autore, tratto da santalessandro.org

Photo by Loïc Fürhoff

L’autore

Giovanni Cominelli laureato in filosofia con Enzo Paci. Consigliere comunale a Milano nel 1980 per il Pdup, consigliere regionale dal 1981 al 1990 per il Pci. Dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Cdo dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Collabora a Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative sul Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009)

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