A differenza del solito, stavolta Carlo Calenda e’ pessimista : “Nessuno – dice il leader di Azione al “Foglio” – puo’ gestire una fabbrica cosi’. Siamo ancora qui a ricordare la storia, passaggio dopo passaggio, ma la questione e’ che l’Ilva chiudera’”.
Calenda parla dopo l’informativa sul polo siderurgico di Taranto del ministro delle Imprese, in cui Adolfo Urso ha illustrato la ‘grave crisi’ dell’impianto, il mancato rispetto degli impegni presi da parte del socio industriale ArcelorMittal e la presenza di ‘patti parasociali ‘fortemente sbilanciati a favore del soggetto privato, siglati sotto il governo Conte II.
Il ministro dice che il governo vuole garantire continuita’ produttiva e occupazionale, ma non e’ stato chiaro sulle modalità’: “Non l’ha spiegato e per questo vanno conosciuti i patti parasociali che lasciano pochissimo spazio di manovra al socio pubblico. All’ epoca dissi che far saltare l’accordo blindato con Mittal con pegno di 4,2 miliardi per farne un altro entrando in societa’ in minoranza significava arrivare alla chiusura. E’ stato un lento suicidio, che si sta consumando sotto i nostri occhi”.
L’ex ministro osserva che “esistono accordi tra Mittal e Invitalia, come ha ricordato bene Urso, fatti in una condizione di assoluto svantaggio per lo Stato. Dopo aver tolto lo scudo penale cambiando il quadro normativo, Mittal si ritiro’ e Conte minaccio’ la ‘madre di tutte le cause’. Ma dopo la sparata si rese conto che avrebbe perso la causa. A quel punto o sei in grado di far rispettare l’accordo o rimetti l’Ilva in amministrazione straordinaria”.
Invece “si e’ messo in societa’ con quelli contro cui voleva fare la causa del secolo, e Mittal si e’ trovata col coltello dalla parte del manico”. La questione ora e’ cosa fare: “La mia posizione istintiva e’ di metterla in amministrazione straordinaria e rifare una gara. Ma e’ una posizione teorica, perche’ non so se c’e’ una penale o ad esempio il rimborso degli investimenti. Mettere altri soldi con Mittal dentro, ma senza un contratto blindato com’era inizialmente, e’ una follia – incalza Calenda – visto che e’ un socio che ora non ha più’ alcun interesse a far funzionare l’impianto. esprimere una posizione compiuta e’ necessario vedere i patti, senza i quali non conosciamo una fondamentale componente di costo”.
La domanda e’ se si vuole davvero produrre acciaio a Taranto, quegli 8 milioni di tonnellate del piano industriale: “La risposta a questa domanda fondamentale e’ che nessuno vuole assumersi la responsabilita’ di chiudere l’Ilva, ma si fanno azioni che porteranno alla sua chiusura. Cosi’ ci metteremo prima altri 3-4 miliardi e alla fine Taranto avra’ nel centro della citta’ un enorme buco da bonificare che costera’ 10 miliardi”. Se si bonifichera’ mai, perche’ il precedente di Bagnoli non e’ confortante. “Il rischio piu’ grande – conclude Calenda – e’ che non ci sara’ piu’ ne’ la produzione ne’ l’ambientalizzazione”.