di Raffaele Piccoli – Lo Stato italiano ha un debito pubblico certificato di 2.815 miliardi di euro, pari al 140% del pil (ricchezza prodotta nel paese). Le agenzie di rating, chiamate dai mercati ad esprimere un giudizio circa la solvibilità del sistema Italia, si sono espresse e si esprimeranno entro il mese di novembre.
I segnali che giungono non sono del tutto confortanti. Gli alti tassi sul debito voluti dalla Banca Centrale Europea creano difficoltà al sistema nel far fronte agli impegni.
Il governo e il ministro Giorgetti lo sanno bene tanto che hanno confezionato una legge di bilancio striminzita, da 25 miliardi con ben 16 miliardi di ulteriore debito. Teniamo presente che se il rating (indice di solvibilità) attribuito al debito italiano venisse declassato i titoli di stato emessi dal tesoro verrebbero considerati dai mercati “spazzatura” e non potrebbero più essere acquistati.
Siamo sul filo del rasoio, vicini alla situazione del 2011/2012.
Da allora sono trascorsi 12 anni e la situazione non è cambiata. La Grecia sorvegliato speciale in default nel 2015 ha fatto pur con grandi sacrifici le riforme necessarie e ha migliorato. L’Italia navigava e naviga ancora tra sprechi, incapacità, burocrazia e evasione fuori controllo.
Spiegare e comprendere una situazione tanto delicata è difficile, ci sono tre elementi che giocano un ruolo decisivo. Il primo è il centralismo burocratico incapace di controllare l’evasione fiscale, il secondo il sistema della finanza derivata, e il terzo il residuo fiscale differenziato e conflittuale tra nord e sud
Provo a chiarire. La burocrazia fiscale centralizzata, non è in grado di controllare in maniera efficace la reale produzione di ricchezza di ogni singolo soggetto, in quanto culturalmente e praticamente lontana dal territorio, applicando regole uguali a realtà lontane, non solo geograficamente.
Immaginiamo una leva fiscale gestita localmente. I Comuni gestiscono il territorio e conoscono le persone che lo vivono e se opportunamente responsabilizzati sarebbero in grado di recuperare risorse, che oggi sfuggono. Il secondo elemento di malfunzionamento risiede nella fiscalità derivata. Le imposte che vengono raccolte sul territorio dai diversi enti (Agenzia delle entrate, Comuni, Regione) solo in minima parte rimangono in loco, vengono in larga percentuale trasferite al centro, che si occupa poi di redistribuirle agli enti territoriali a suo insindacabile giudizio, con le annuali leggi di bilancio. Un esempio per tutti la finanziaria 2024 che taglia 1 miliardo di trasferimenti a Comuni e Regioni.
E arriviamo al terzo e ultimo elemento, il più importante. Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto da sole regalano ogni anno al centralismo romano qualcosa come 89 miliardi di euro che partono sotto varie forme e non tornano più. Altre regioni del nord e alcune del centro completano il quadro per arrivare alla fatidica cifra di 100 miliardi l’anno. All’altro capo della barricata, abbiamo la Sicilia che da sola, pur avendo la possibilità di trattenere molti tributi, è mantenuta dallo Stato (cioè dal Nord) per ben 10,61 miliardi. Poi la Puglia in perdita di 6,41 la Calabria per 5,87 la Campania per 5,70 e via via sino a formare la bella cifra di 45 miliardi di euro che Roma deve sborsare ogni anno, per sostenere queste realtà. Risorse che lo Stato non ha e che devono necessariamente essere reperite sul mercato dei capitali, allargando cosi ogni anno il fatidico buco nero.
Appare peraltro evidente anche alla luce di questi dati il motivo per cui le regioni del Sud e alcune del centro siano cosi contrarie alla pur piccola riforma sull’autonomia differenziata.
L’Europa, il Fondo Monetario, La Banca d’Italia, non perdono occasione per richiedere riforme. Ma quali riforme? Esiste una sola ricetta realmente efficace, e si chiama federalismo istituzionale e fiscale. Oggi purtroppo nessuno ha più il coraggio nemmeno di pensarlo.