Post Covid dei riformisti? Elezione diretta del capo dello Stato e del governo

17 Marzo 2021
Lettura 5 min

di Giovanni Cominelli – “Liberalismo democratico”, “liberalismo sociale”, “socialismo liberale” non sono espressioni letteralmente sinonime, ma indicano tuttavia uno stesso campo semantico. È su questo terreno che ha senso lo sforzo di “unire i riformisti”.

L’avere collocato il Partito democratico su questo terreno di gioco è la scelta positiva che ha fatto Enrico Letta. La frase-chiave di Letta è quella che equipara il tempo del post-Covid a quello della caduta del Muro di Berlino. Forse il neo-segretario non immagina quanto vera e quanto satura di conseguenze. O forse sì.

Perché, dopo la caduta del Muro, in Italia si frantumò il sistema politico-partitico e si aprì il travaglio per costruirne uno nuovo. Da allora i partiti non hanno mai affrontato seriamente quel compito. Non sarà possibile o, comunque, sarà inutile “unire i riformisti” senza riprendere il filo di quel gomitolo.

Il Covid sta operando una cesura storica ancora più radicale di quella dell’Ottantanove su scala geopolitica mondiale, che impone a tutti i soggetti nazionali un cambio di passo.

Da anni nel campo riformista si avvicendano incessantemente piattaforme ideali e programmatiche, rifondazioni, cambi di leadership, scissioni, ricomposizioni, alleanze, appelli ai giovani, alle donne, ai cittadini, alle periferie, al popolo “buono”. Insomma, una grandissima “ammuina”, ma la nave riformista sta sempre alla fonda e l’equipaggio inganna il tempo in risse infinite.

Al netto del narcisismo litigioso e cronico, già praticato dai polli del Manzoni, la causa più profonda dell’impotenza dipende dal fatto che non si è afferrato con la necessaria intelligenza quale sia la riforma, nella voluminosa enciclopedia delle riforme pensate, attese, promesse, rinviate, che può innescare tutte le altre, quale è la madre di tutte le riforme.

Come all’indomani della caduta del Muro, la necessaria riforma, condizione trascendentale di ogni altra, è quella del sistema politico-istituzionale. È la riforma della politica. Non delle policy, non della politics, ma della struttura istituzionale della politica. Perché è questa che è fallita.

Se ci poniamo dal punto di vista dei cittadini “quotidiani”, essi chiedono alla politica due cose: l’ascolto dei loro problemi pubblici – si chiama rappresentanza – e la soluzione dei loro problemi pubblici (si chiama governo).

Ora, la democrazia italiana è perfetta nel rappresentare, pessima nel governare. Anzi, perfetta nel non-governare, una vera arte quella del non-governo, come ha illustrato anni fa Piero Craveri nel 2016 nel libro “L’arte del non governo. L’inarrestabile declino della repubblica italiana”.

La nostra è una democrazia vociferante, non decidente. Ma sono esattamente le decisioni e le scelte ciò che i cittadini chiedono alla politica. E se la politica fa lo gnorri o se grida e strepita in interminabili baruffe chiozzotte, ma non decide, non scioglie e non risolve, allora il popolo diventa qualunquista, assenteista, “populista”, almeno per un po’, salvo scoprire che neppure i populisti, siano di destra o di sinistra, sono capaci di alcunché.

Il tema della riforma della politica si era squadernato ampiamente già dopo il 1989. Ma, dopo una confusa stagione di proposte elettorali, conclusa nel 1993, e di riforme istituzionali, durata fino alla Commissione Bicamerale di D’Alema del 1997-98, si preferì buttarla… in politica, sul bipolarismo destra/sinistra. Che è arrivato ed è tramontato, senza garantire un’istituzione-governo stabile al Paese.

Il bipolarismo si è dimostrato precario, instabile e inefficiente. Dal 1994, anno di inizio della “seconda repubblica” si sono succeduti 17 governi, durata media un anno e mezzo.

Che cosa intendo per “governo del Paese”? Mi interessa un governo che duri cinque anni. Perché ho bisogno di progettare, sia pure sul breve orizzonte, la mia vita familiare e professionale. Ciascuno ha un orizzonte proprio: anziano o giovane, pensionato o attivo, dipendente statale o privato, un imprenditore o scienziato. Ma a tutti serve un orizzonte di progetto largo. E serve anche a chi governa per realizzare quello che mi ha promesso.

La prima conclusione da trarre, la prima riforma da fare è questa: progettare un sistema politico-istituzionale che dia al Paese un’istituzione-governo degna di questo nome.

Come arrivarci non è un mistero, il mondo intero è pieno di modelli. Nel caso americano, gli elettori hanno in mano due schede: una per il Presidente – sia pure per interposto “grande elettore” – una per il rappresentante alla Camera o al Senato; il sistema elettorale è uninominale a turno unico. Nel caso francese, il sistema elettorale è a doppio turno. Insomma: gli elettori scelgono il governo. Alla domanda: come avvicinare gli elettori alle maggioranze che sostengono il governo, si può solo rispondere: fateglielo scegliere!

Eccola qui la famosa democrazia diretta. L’elettore sceglie direttamente il proprio rappresentante e il Capo dello stato e del Governo.

L’ostacolo su questo cammino semplice è rappresentato dal sistema dei partiti. Che vi si oppongono strenuamente.

I partiti sono associazioni private, cui l’Assemblea costituente, che loro hanno scelto, ha concesso i pieni poteri: scelgono i deputati, i senatori, i Presidenti del Consiglio, i Ministri, e un sacco di altre postazioni dell’Amministrazione pubblica, della Magistratura, delle Aziende pubbliche, delle Banche, delle Regioni, dei Comuni ecc… Un potere immenso. Che nessuno può mettere in discussione. Tanto più che dall’esterno nessuno può minimamente contestare i meccanismi con cui pervengono alle scelte.

Chi pratica il centralismo carismatico, chi il centralismo correntizio, chi l’arbitrio puro. C’è da rimpiangere il centralismo democratico! Non esiste una legge che stabilisca i parametri di democrazia interna uguali per tutti i partiti.

Nella Commissione bicamerale del 1997-98 i partiti sono arrivati a lambire per un attimo un progetto semipresidenziale per abbandonarlo in tutta fretta. Di lì in avanti si sono cimentati solo con il sistema elettorale. Che però sta come “casecavalle appise”, se non lo si aggancia ad un nuovo sistema istituzionale. E, infatti… si è regrediti dal Mattarellum fino a scenari proporzionali. In ogni caso, non solo il governo, ma anche i rappresentanti li hanno scelti e vogliono continuare a sceglierli i partiti. Con quali criteri? Nessuno ci può mettere becco. Si viene scelti per fedeltà correntizie. Per niente altro.

Ora Letta propone sfiducia costruttiva, nuovi regolamenti parlamentari anti-voltagabbana, regolazione legislativa dei partiti.

Vorrebbe abolire anche le correnti del partito. Impresa insensata, che nessuno potrà mai realizzare. Perché rappresentano, in modo distorto, la pluralità degli interessi e dei valori. Le correnti si aboliscono, ma si può impedire loro di destabilizzare il partito, e quindi il governo, solo se si impedisce al partito e ai partiti come tali di destabilizzare e far saltare un governo all’anno. La forza delle correnti nasce da quella dei partiti. È questa che va ridotta radicalmente. Come? Dando ai cittadini il potere di scegliere il governo.

È facilmente prevedibile che all’interno del Partito democratico parecchi cominceranno a strascicare i piedi. E lo faranno anche gli altri partiti. Le sue proposte sono destinate a vita grama, se non chiama in causa i cittadini. I quali, dopo tante delusioni e dopo il fallimento della democrazia diretta populista, si possono muovere alla sola condizione che si riconosca loro un potere che finora è sempre stato loro negato: quello di scegliere direttamente il rappresentante e il Capo dello Stato e di governo. È assai probabile che l’audacia di Letta non si spinga fin così in là e che questo lo condanni alla sconfitta.

Ma i riformisti, quale che ne sia la matrice, potrebbero trovare qui pane per i loro denti. Finora si sono sprecati un sacco di numeri ordinali – qualcuno è arrivato a parlare di Quarta – per coprire il fatto che siamo ancora e sempre nella Prima Repubblica. In realtà, il nome più pertinente è quello di Movimento per una Nuova Repubblica.

Per gentile concessione dell’autore da linkiesta.it

Giovanni Cominelli laureato in filosofia con Enzo Paci. Consigliere comunale a Milano nel 1980 per il Pdup, consigliere regionale dal 1981 al 1990 per il Pci. Dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Cdo dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Collabora a Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative sul Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009)

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