di Giovanni Cominelli – Sradicare dalla testa dei maschi il teorema del patriarcato e il corollario del possesso è un problema di civiltà. La prima risposta d’istinto della società e della politica – lo si è visto anche in quest’ultima circostanza – è quella securitaria. Su questo fronte già esistono varie norme del Codice penale e nuove leggi, che hanno aumentato le pene e introdotto misure di prevenzione sulla violenza contro le donne. Si tratterebbe di inasprirle.
Nel caso di Giulia Cecchettin, la politica è subito entrata in gara demagogica. Consapevole che la questione è in primo luogo culturale, Elly Schlein si è precipitata a proporre a Giorgia Meloni una “Legge per l’educazione all’affettività nelle scuole: “Se non si agisce già a partire dalle scuole e nella cultura per sradicare l’idea violenta e criminale del controllo e del possesso sul corpo e sulla vita delle donne, sarà sempre troppo tardi”. Al di là dell’apparente ragionevolezza – qualcuno può negare che la questione sia innanzitutto educativa e culturale? – la proposta di una legge sull’educazione all’affettività oscilla tra il ridicolo e il demagogico ossessivo. Non varrebbe la pena di prenderla sul serio, se i presupposti ideologici che la ispirano non fossero socialmente pervasivi. Vogliamo creare Cattedre/discipline di affettività e istituire nelle scuole per ogni problema sociale rilevante una nuova disciplina o, comunque, una o più ore di insegnamento? Il meccanismo infernale implosivo che sta già imbragando in una rete burocratica e legalistica la vita scolastica è stato attivato da tempo. Fioriscono “educazioni” di ogni tipo: civica, ambientale, stradale, sessuale, alimentare, sicurezza, fisica… E, si intende, non possono mancare i PCTO – Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento! Viceversa i saperi/ competenze essenziali, a partire dall’espressività linguistica, all’uso della parola scritta sono messi ai margini. Se al termine della Terza media, la metà dei ragazzi non è in grado di comprendere un testo in Italiano, con quali strumenti riusciranno a dire a se stessi e agli altri ciò che si muove nel loro profondo? Come si relazioneranno agli altri? Colpisce la concezione dell’istituzione scolastica come il cireneo che porta la croce che la famiglia, innanzitutto, e la società non sono capaci di portare.
Già, la famiglia!
Se si tratta di educare all’affettività, è arcinoto che è nei primi tre anni di vita che nella psiche dei bambini si imprimono gli stigmi fondamentali, che segneranno il loro approccio al mondo. È nelle relazioni primarie che si definisce l’identità di una persona. L’identità non è un noumeno ontologico originario, ma una costruzione sociale, fondata sul riconoscimento dell’altro, che accade solo nella relazione in atto. Quando un ragazzo oltrepassa i dieci anni di vita, il suo rapporto con il mondo corre già dentro binari fissi. Dai quali può anche deragliare, si intende.
L’educazione è decisiva, ma non è onnipotente: fa i conti con la libertà, con il caso e con il caos dei singoli. L’educazione è a rischio di scacco, non è un passe-partout! In ogni caso, se è nella famiglia che si forgia la struttura psichica, il problema socio-educativo principale è quello di preparare i potenziali genitori a educare i figli al rapporto con la realtà. Per legge!? Corsi per fidanzati, finanziati dallo Stato, sostitutivi di quelli delle Parrocchie o dei Centri culturali? Decisivi, se vogliamo rimanere nell’ambito delle istituzioni educative, sono gli asili-nido e la scuola dell’infanzia.
Fare i conti con i modelli che passano in quei luoghi aiuterebbe assai di più che riempire di psicologi gli Istituti della scuola secondaria di primo e secondo grado. I “corsi sull’affettività” si dovrebbero fare ai genitori e agli insegnanti dei loro pargoli.
La società dis/educante!
Quali sono i paradigmi sociali educativi, espliciti o non detti, che condizionano l’educazione dei figli?
Ve ne sono di due tipi. Il primo è quello ultra-millenario del patriarcato, nato dalle società agrarie e prolungatosi fin dentro le società industriali, quale conseguenza di una divisione socio-tecnica e sessuale del lavoro. Il maschio lavora, combatte, riposa, la femmina amministra l’economia domestica, il suo lavoro produttivo consiste nel fare figli e accudirli.
Che vengono rigorosamente educati, non con le parole, ma con le relazioni concrete in atto, al potere prevalente o assoluto del maschio. Ai figli è chiaro da subito chi comanda e chi obbedisce: chi lavora comanda! Questo patriarcato sottoproduce un modello maternalista, che costituisce il maggior veicolo dell’ideologia e della prassi dell’onnipotenza di genere maschile. Maternalismo come altra faccia del maschilismo strutturale della società: i due si alimentano a vicenda. Le religioni storiche hanno consacrato questo modello.
Il Cristianesimo è stato costretto ad abbandonarlo, benché all’interno della struttura ecclesiastica si fatichi ancora parecchio in questa direzione. L’Islam e il fondamentalismo ortodosso ebraico, invece, continuano imperterriti ad alimentare il patriarcato e la subordinazione femminile.
Il paradigma dell’Io assoluto
Il secondo è il paradigma moderno/postmoderno delle società urbane, dei ceti colti e riflessivi. Un paradigma ZTL? L’Io-individuo, quando esce dal ventre materno, è pensato già bell’e pronto, dotato della tavola di tutti i diritti. L’educazione è un’educazione a rivendicare i miei diritti. E la politica consiste nel “produrre diritti a mezzo di diritti”. L’educazione finisce per approdare alla costruzione dell’Io-narciso, che si abitua a credere che la realtà sia pieghevole e manipolabile secondo le proprie pulsioni e i propri diritti. Una realtà-Lego. È evidente che ai miei diritti corrispondono i doveri degli altri nei miei confronti. E se il mondo non si piega? Se il mondo dice NO? Allora, il bambino/ragazzo/adolescente risponde con la depressione o con la violenza, contro l’Altro-ostacolo, ma anche contro di sé. In questo caso la costruzione dell’Io maschile onnipotente non è effetto della struttura socio-economica, è il prodotto di un’ideologia della liberazione dell’IO, per la quale l’Io viene prima della relazione.
Sono parecchi i grumi ideologici che si aggirano nel cervello sociale della modernità post-moderna. Uno è, appunto, il dirittismo: l’idea che i classici tre principi della Rivoluzione francese stiano in piedi solo sui diritti.
Solo che, se mancano i doveri corrispondenti, una simile concezione frammenta la società in mille conflitti tra mille identità. Come reazione al patriarcato sta nascendo un femminismo identitario radicale, che proclama che i maschi sono, come tali, criminali.
Un altro grumo, ma qui mi fermo, è l’idea che i No che ci si oppongono nella vita individuale e nella storia siano soltanto delle insopportabili anomalie. Il “Limite” è l’anomalia, non la nostra normalità. Il “Male” non è intrecciato con il “Bene”. L’uomo non è angelo e bestia. La vita e la storia non sono un dramma, ma un talent-show a lieto fine.
E Dio? Beh, come faceva notare J. Derrida, a questo punto diventa solo uno pseudonimo dell’Io.
Giovanni Cominelli
Giovanni Cominelli laureato in filosofia con Enzo Paci. Consigliere comunale a Milano nel 1980 per il Pdup, consigliere regionale dal 1981 al 1990 per il Pci. Dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Cdo dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Collabora a Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative sul Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009)