La scomparsa dei settentrionali

25 Agosto 2020
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di Giovanni Polli – C’era una volta la Questione settentrionale. Ma ora chi l’ha più vista? L’ultima volta che fu avvistata in maniera incontrovertibile e palese in seguito ad un voto popolare era il 2008, anno in cui si tennero le ultime elezioni democratiche. Quelle svoltesi, per sintetizzare, prima del golpe Monti e di quell’altra tornata che battezzò l’attuale legislatura, dalla quale non emersero né maggioranze né indicazioni utili per evitare la prosecuzione dell’esperienza sciagurata di quel governo a forte trazione bancaria imposto dall’eurocrazia.

In quell’anno, con la vittoria della Lega Nord insieme al Popolo delle libertà, un articolo a firma di Luca Ricolfi, Paola Ferragutti, Francesca Dallago pubblicato sulla rivista politica “Polena” ed intitolato esplicitamente “Le elezioni di aprile e la “questione settentrionale”, parlava molto chiaro: “Non era ancora finito lo spoglio delle schede, e la maggior parte di noi si stava ancora chiedendo chi fosse il vincitore di queste elezioni. Ma in quella notte vagamente surreale Piero Ostellino una cosa l’aveva capita al volo, e la raccontava in due interventi sul Foglio e sul Riformista: il voto di aprile aveva improvvisamente riaperto la “questione settentrionale”, ossia precisamente il grande nodo economico-sociale su cui nel 1994 era nata la seconda Repubblica (Diamanti, Mannheimer, 1994)”.
Un rimando ed un altro rimando ad autori titolati per sottolineare come, ancorché non riconosciuta esplicitamente a livello accademico come l’omologa meridionale, la Questione settentrionale occupasse gli spazi del dibattito anche molto al di fuori dell’ambiente del movimento politico, la Lega Nord, che in un modo o nell’altro fino a quel momento l’aveva posta chiaramente all’attenzione di tutti nel corso di un quarto di secolo.

“Secondo Ostellino la Questione settentrionale è “il problema di come rispondere alla domanda di modernizzazione degli elettori italiani che appartengono alle zone più industrializzate””, si può ancora leggere in quell’articolo su “Polena”.

Ma addirittura l’esistenza di un problema di rappresentanza politica delle aspirazioni della parte produttiva dello Stato italiano arrivò ad essere ammessa anche da personaggi del centrosinistra tutt’altro che di secondo piano, come Sergio Chiamparino e Massimo Cacciari. Nel 2013 fu oggetto addirittura di un sondaggio della SWG di Trieste e di un successivo dibattito pubblico proprio con la loro partecipazione. L’indagine demoscopica rivelava che il il 16 per cento ritenesse assolutamente discriminato, mentre per un altro 30% fosse “abbastanza” discriminato. I numeri? Per quasi 27 milioni di cittadini del Belpaese (il 66% di quelli del Nord) le politiche italiane hanno sfavorito il Settentrione.

Poi, ma già con Monti si era avuto lo stop al Federalismo fiscale e l’avvio di una martellante propaganda contro tutte le autonomie locale, con Letta e Renzi la parola d’ordine fu una soltanto: ricentralizzazione. Anche la Lega Nord guidata da Matteo Salvini ha iniziato da quel momento a ricercare la copertura di uno spazio politico diverso e fino a quel momento non occupato. La lotta contro l’euro, l’eurocrazia e l’immigrazione incontrollati hanno finito per relegare in un piano marginale la stessa storica ragione fondante della Lega: la restituzione dei poteri dal centro alla periferia.

Solo a fine 2017, un altro articolo – questa volta sul giornale online IlPost – interrompeva la calma piatta su questo argomento con un titolo che è apparso come un vero schiaffo ai dormienti: “La scomparsa dei settentrionali”, a firma Lorenzo Ferrari. Impietoso e brutale l’attacco, un vero e proprio censimento che non lascia scampo: “In Italia, non c’è più un solo settentrionale nei principali posti di potere: non era mai accaduto prima. Il presidente della repubblica, si sa, è siciliano. Il presidente del consiglio, si sa ancora meglio, è fiorentino. Il partito su cui si regge tutto il sistema – il Partito Democratico – è presieduto da un romano e in Parlamento è guidato da un lucano e da un sardo. L’altro partito di maggioranza è diretto da un siciliano, e al governo i ministri più importanti sono romani, siciliani e toscani. Qualche ministro settentrionale c’è, ma hanno poco peso politico o sono in crisi, come Lupi”.

Naturalmente l’articolo citava esplicitamente anche il Carroccio, e non certo per lodarne l’impegno: “Persino il partito che era nato esplicitamente per fare gli interessi del Nord, la Lega Nord, sta abbandonando il suo carattere settentrionale”.

Tra le cause, il fenomeno sarebbe dovuto  “in parte” ad “una reazione ai fallimenti degli ultimi decenni, ma è anche la manifestazione di una crisi più ampia che investe la classe dirigente del Nord, pure al di fuori delle istituzioni politiche”.
Tutto qui? Potremmo allora anche aggiungere una miopia perseverante nel considerare solo ed esclusivamente “il Nord” come un dato socioeconomico e geografico. Un mero punto cardinale, privo di quella valenza socioculturale ed identitaria che – al contrario – era stata propria non soltanto del padanismo leghista a dire il vero un po’ tanto confuso, ma anche del coraggioso quanto sfortunato progetto della “Padania” dell’allora presidente della Regione Emilia – Romagna Guido Fanti, a metà degli Anni ’70.

La sfida, oggi, è per questo motivo più dura che mai: il mainstream politico e della comunicazione pubblica ha espunto almeno per il momento la questione territoriale dai suoi temi di fondo e anche da quelli di contorno. Il movimento territoriale per antonomasia, la Lega Nord, in questa fase batte altre terreni politici. La “libera stampa”, o meglio quel che ne rimane, è un tutt’altre faccende affaccendata.
E la parte – malgrado la crisi – più produttiva di questo Stato resta sempre più priva di rappresentatività, di visibilità, di potere contrattuale. Fino a che punto, dopo aver conosciuto le speranze dei decenni passati, una situazione di questo tenore potrà  essere considerata ancora sostenibile?

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Direttrice: Stefania Piazzo
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