Parla l’Albertino, prigioniero (padano) sul taschino

5 Febbraio 2024
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di Riccardo Pozzi – A volte succede che non ricordi più il mio nome, e questo, un po’ mi spaventa. Ma ricordo le battaglie combattute, quelle sì, quando l’erba dei prati si tingeva di sangue.  Spesso non rammento il mio compito, la mia consegna di soldato.

Ma una cosa l’ho capita: questa non è casa mia. Io e la mia spada siamo fatti di latta, materiale la cui nobiltà è pari a ciò che il nome suggerisce. Mentre l’enorme lancia, solidale di schiena alla mia armatura, è d’acciaio armonico ed è fissata al tessuto in modo robustissimo, così da impedirmi di muovermi.

Dunque eccomi qui, dopo otto secoli dalla mia gloria più alta, appeso per la schiena al taschino di una giacca, fisso nella mia posizione con la spada sguainata e puntata al cielo, diretta a un nemico inesistente, a un obiettivo inventato e non reale., alla nostra 

Li sento, li sento i discorsi di colui che mi porta in giro, nascondendomi di tanto in tanto, e mostrandomi nelle occasioni che ritiene opportune.

Nelle sue parole non affiora mai un accenno alla mia vita, al nostro arrovello di antichi avi, non un solo pensiero alle nostre battaglie contro la tirannia del rosso imperatore e la sua sfrontatezza nel chiamar romano e addirittura sacro il suo impero.

Il fiacco rappresentante che mi trasporta pare affetto da una crudele sindrome, dimentica alla sera ciò che, con ferma determinazione, asserisce al mattino.

Egli tiene me, insieme al mio vissuto di combattente, appesi al suo tascotto ricavato sul petto, per farsi da scudo con un coraggio che non possiede nel difendere la propria terra.

Mentre la bramosia sembra rivolta più alle terga e al supporto lautamente ricompensato che le sorregge.

In quel modo appeso con la mia armatura, mi sovvengono i traditori che ho conosciuto durante l’assedio di Crema, rapidi e scaltri nell’accettare il denaro più sporco e passare dalla parte del nemico.

Guardavano a testa bassa, quei corrotti, i loro concittadini infilzati dalle balestre amiche, appesi ai torrioni d’assalto dell’Hohenstaufen, guardavano chi aveva accettato di farsi uccidere pur di non tradire.

Non posso dimenticare nemmeno il viscido mercanteggio di Milano, comune più grande che con il tiranno sconfitto trattò, temendo la reazione armata, e trovò un accordo sulle pretese fiscali, ai danni di tutti i poveri dal Ticino alla laguna di Venezia.

E’ difficile, per me, fingere una serenità che non ho mai conosciuto. Anche quando, la sera, vengo appoggiato ad un trespolo per indumenti e lasciato lì al buio, con le mie vecchie ossessioni.

Con le mie paure e i laceranti rimorsi per aver permesso che la gleba di Pontida divenisse un parco giochi, un prato per l’esibizione di giullari e saltimbanchi.

Ma l’amarezza più insopportabile è il vedere come ottocento anni che separano questi molli trasportatori di soldati di latta dalle mie gesta siano passati invano.

Ancora una volta traditi dai pavidi, venduti dai più avidi, trafugati dai ladri di principio.

Oggi come allora vedo i sorrisi falsi degli spacciatori di libertà, vedo come otto secoli fa la doppia moralità dei commercianti di dignità, mercanteggiare la vita dei propri simili, indossando nuove armature e imbracciando nuove armi.

Troppo allettante è la ricchezza promessa dall’imperatore, tanto più facile è deporre la spada per chiamare la resa “pax romana”. Vedo che oggi, come allora, è facile scaricare gli zappatori e allearsi con il carceriere.

Ormai da molto tempo, nella mia posizione rivolta esattamente al loro volto, non vedo gonfiarsi le vene dei loro colli, non osservo arrossire le loro giugulari, non scorgo nessuna virtù nel patire, nessun ardire della volontà. Tutto è tranquillamente ben pagato e durevole.

Non si percepisce più l’olezzo del letame dei campi, o il fragore metallico delle forgiature. Dopo un’altra notte da recluso è di nuovo mattino.

Qualcuno sistema meglio la lancia di acciaio, solidale alla mia schiena, che mi rende prigioniero al taschino di questo strano paramento.

Poi inizia il calvario. In breve tempo mi trovo tra decine di altri me stesso, anche loro di latta e anche loro crocefissi ad altrettanti taschini o a qualche accessorio femminile.

Ci guardiamo spaesati, noi, piccoli Albertini di latta, prigionieri di lance d’acciaio che ci inchiodano a questi ignari portatori di ipocrisia.

A volte capita di incrociare lo sguardo di un altro soldato, come quando sul campo di battaglia intercettavo gli occhi iniettati di paura dei fanti, terrorizzati di scorgere una crepa di panico dentro ai miei, un barlume di disperazione in chi comanda, la pavidità che un capo non può permettersi.

Oggi non vedono altro che fissità, immobile e cristallizzata. Da condottieri abbiamo sempre messo in conto la paura, in tutte le sue declinazioni, fino alla diserzione.

Ma il tradimento no. Il tradire non ha alcun senso. Se non credi nell’obiettivo, perché ti sei arruolato?

Il tradimento è la perdizione più profonda del soldato, ma non è paragonabile al tradimento del capo, autentica devastazione morale, terremoto della coscienza di una comunità.

Siamo tutti trasportati nei templi della falsità, come prigionieri della vigliaccheria e del sorriso, lontani da ogni ardire, fuori da ogni epopea. E per la prima volta nella mia esistenza desidero morire, pur di cessare questa meschina sopravvivenza.

Lo farei anche da solo, con la mia spada di latta se solo potessi muovermi e rivolgere questa ridicola arma verso il mio cuore, ormai troppo ferito dalla codardia.

A volte mi sembra di ricordare il mio nome, urlato dai miei soldati o scritto sui muri con un tizzone spento, per darsi forza. Ma forse è solo un’idea, un’invenzione della speranza di milioni di anime.

Gente che non combatterà mai rischiando la vita. Preferirà il sicuro rifugio dei prevaricati, da cui nessuno si sforzerà di tirarti fuori. E per questo immagina un eroe, qualcuno che combatta per ciò che crede di meritare.

A volte ricordo perfettamente il mio nome, urlato dalla fanteria improvvisata con migliaia di contadini, pronti ad imbracciare falci e forconi come spade e lance, disperati combattenti del sopravvivere quotidiano, perché nessuno è più nel giusto di chi combatte per la dignità, per rendere vivo il proprio lavoro.

Mentre osservo le mani bianche e curate dei nostri trasportanti, immagino il mio nuovo esercito di latta; guerrieri imbalsamati agganciati a questo tempo con una spilla d’acciaio.

Immagino di essere in grado di liberare i miei fratelli immobili e condurli di nuovo al coraggio della rivolta. Proprio ciò che manca a questa mandria molle di giganti, che sono condannato a guardare dritto in faccia, osservando con disgusto gli angoli della loro bocca piegarsi leggermente quando mentono.

E’ così che da alcuni anni cresce in me l’arrovello, il demone che arde, la crescente impellenza di un atto finale, l’ardire ardente arso d’ardore dell’atto finale, di un colpo di vita. 

Sento che devo, prima che nessuno ricordi più la mia spada e contro chi era rivolta; sento che voglio, prima che il mio nome si perda nel mar pavido della menzogna; sento che posso, prima che l’ignavia di questa mostruosità mi trasformi in un soldatino inanimato, il cui nome si è perso tra le facezie del basso politicare.

Sento che lo farò.

Con l’aiuto dei resti residui fi forza, cercherò l’atto estremo, e di questo convincerò tutti i miei prodi soldati di latta, prigionieri di migliaia di baveri di giacche, di taschini infeltriti, di infamanti spille d’acciaio che della coercizione sono il simbolo più chiaro.

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Direttrice: Stefania Piazzo
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