
di Giovanni Polli – Un travisamento, un bavaglio o un mezzo per non infettarsi o, meglio, per non infettare il prossimo? La potenza delle immagini parla da sola. Quell’arnese di stoffa che siamo obbligati a portarci come divisa ufficiale del regime distanzialsocialista evoca ricordi e sensazioni tutt’altro che piacevoli.
La disumanizzazione, la castrazione del sorriso o della serietà, della gioia o del disappunto, l’obbligo di nascondere la nostra fisionomia insieme a più di metà del viso, e quindi le nostre stesse emozioni, il nostro essere. Proprio come il niqab, non a caso imposto dalla tradizione islamica più arcaica a nascondere il volto di un essere umano che, di fatto, appartiene ad un genere gerarchicamente inferiore a quello maschile, pur con tutte le più nobili, scontate e pelosissime giustificazioni pseudoculturali e parareligiose a corredo.
Quando però quell’arnese di stoffa viene utilizzato come una bandiera, allora assume un significato ancora più forte. Un significato di denuncia violenta è quello espresso dalla ragazza nel celebre murales sardo. La denuncia del fatto che l’Italia non rispettasse il suo diritto di “faeddare sa limba sua”, cioè di parlare nella sua lingua, quindi di essere se stessa, brutalmente tappandole la bocca con i colori della bandiera dell’oppressione culturale, oltre che politica. E quindi esistenziale.
Tutt’altro significato quando il “bavaglio” non è percepito o presentato come tale ma indossato come motivo di orgoglio di appartenenza ad un’identità, peraltro alla quale ci si è magari convertiti soltanto negli ultimi anni. Vedere però il rappresentante politico di un partito che un tempo rappresentava le istanze di un suo territorio ben preciso, oppresso culturalmente e politicamente proprio dallo Stato italiano, che autonomamente si imbavaglia proprio con quei colori è un’allegoria che non passa inosservata. Siamo tutti noi, popoli, che siamo stati imbavagliati. A partire da quello che si presentava come il leader per la loro liberazione.
Proviamo a comparare per un attimo il selfie di ieri di Salvini con la potenza evocativa del murales sardo. La potenza iconografica di entrambe le immagini è fortissima. Certo, cambiano i significati e le percezioni, ma il simbolo è terribile e – almeno per chi scrive – sempre troppo violento e disturbante. Quei colori che tappano la bocca, togliendo fisionomia e diritti di essere noi stessi, evocano una violenza brutale assai simile nel concetto, nell’anima anche se non nella carne, ad uno “stupro” etnico. C’è chi ne soffre e chi – evidentemente – riesce a provarne pure piacere.