di Roberto Gremmo – I giovani volontari accorsi spontaneamente nei paesi alluvionati cantano “Romagna mia”, non “Bella ciao” e neanche “Fratelli d’Italia”.
Il sentimento innato di appartenenza, nel momento più difficile, emerge prepotentemente e fa riscoprire il valore della propria identità profonda.
Non è da oggi che i romagnoli sono orgogliosi della propria specificità.
La stessa “Carta Costituzionale” in una prima stesura prevedeva la creazione di una regione Romagnola distinta da quella “Emiliano Lunense”, ma il progetto venne affossato e fu l’allora giovanissima onorevole Cleonilde Jotti a fare il diavolo a quattro, in un impeto centralista, per tenere assieme le due realtà, che meritavano invece di veder valorizzate le loro caratteristiche originali.
Dal 1920 fino al 1933 quando venne soppressa dal fascismo, la cultura folkorica romagnola era stata valorizzata dalla rivista “La pie” (la piadina, il “pane dei poveri”, tipico del posto) fondata da Aldo Spallicci. Una rivista bella e coraggiosa aNche già nell’editoriale del primo numero ostentava il programma del “ritorno alla terra”, del focolare e della difesa del dialetto; proclamando senza peli sulla lingua di voler “far argine alle uniformità cosmopolite”.
Lo stesso Mussolini che era della zona del Torrente Rabbi, anche nota – nomen -omen – come “valle del diavolo” non perdeva occasione per ostentare la propria “romagnolità” salvo poi combattere ogni forma di regionalismo e localismo ed emarginando il dialetto, oltre a banalizzare il ricco folklore del posto, ridotto a pretesto dopolavoristico nel nome della becera, sciocca e poi tragica esaltazione di “Roma doma”, dell’impero e del nazionalismo militarista.
Il nostro saluto fraterno e sincero vada dunque ai giovani di Romagna, terra ferita ma forte, che saprà rialzarsi. Anche perché, nel momento più difficile, scopre d’avere forti radici.
Etniche, linguistiche, morali e spirituali.