Legge di Bilancio 2023: un disastro annunciato. Due sconti da fame, e l’incapacità di gestire la deflazione spinta

1 Dicembre 2022
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di Luigi Basso – Nei giorni scorsi la Legge di Bilancio 2023 ha iniziato il viaggio che, dopo aver toccato Bruxelles e Francoforte, dovrebbe portare alla sua approvazione nel Parlamento entro la fine dell’anno.
Come tutti gli anni, da circa trent’anni, chi si trova al Governo illustra gli effetti mirabolanti e prodigiosi delle coraggiose e geniali misure appena varate e chi si trova all’opposizione lamenta la tirchieria di chi comanda: così, chi prima era all’opposizione dell’ultimo Governo, pretendeva ieri scostamenti di bilancio da cinquanta, sessanta, persino settanta miliardi da destinare alle famiglie ed alle imprese italiane, salvo poi, una volta arrivato al Governo, continuare a fare orecchie da mercante.


Come tutti gli anni, quando si va a leggere l’articolato di legge, si scopre che la minestra è sempre la stessa e che se non è zuppa sarà certamente pan bagnato.


La morale è sempre quella: dagli addosso ai poveracci, del resto la storia insegna che è più facile togliere dieci euro a cinquanta milioni di babbei sfigati, che trenta milioni a dieci potenti che gestiscono il teatrino.


Come da tradizione ormai trentennale, anche questa manovra – come le ventinove che l’hanno preceduta – toglie ai ceti più deboli per cercare di tenere a galla un sistema di pochi baronati garantiti che non sta più in piedi.
Anzi: per effetto dell’inflazione a due cifre, questa manovra toglie ancora di più ai ceti popolari rispetto a quelle precedenti.


La ricetta dell’attuale Governo è esattamente quella che ci ha portato in questa situazione: deflazione salariale spinta con, per far buon peso e dimostrare che i nuovi (?) arrivati non scherzano, l’eliminazione del reddito di cittadinanza che dovrebbe obbligare migliaia di nullatenenti ad accettare lavoretti da tre-quattrocento euro al mese; ulteriore precarizzazione del lavoro col ritorno dei voucher.
Queste misure non solo non hanno funzionato in passato, ma soprattutto denotano che chi è al Governo non ha capito nulla dell’attuale situazione economica.


Il vero problema di ciò che resta dell’impresa italiana non è il costo del lavoro: l’arrivo di milioni di immigrati come manodopera concorrente con quella italica, l’eliminazione della scala mobile, l’introduzione di decine di contratti di lavoro esclusivamente precari, hanno già abbassato da anni il costo del lavoro al minimo e proletarizzato (in senso letterale) milioni di lavoratori: nel secondo dopoguerra l’operaio riusciva a comprar casa e mandare i figli all’Università, oggi è fantascienza.


Il fatto che i Governi continuino a premere sempre sui salari in modo ossessivo compulsivo dimostra che a Roma non hanno compreso la profondità e le cause dell’attuale crisi.


Il problema macroeconomico europeo è il costo delle materie prime, non il costo del lavoro (gas, petrolio, metalli rari, generi alimentari di prima necessità).


Le imprese chiudono non perché non sono in grado di pagare i salari da fame ai lavoratori precari, ma perché non riescono a procurarsi le materie prime da lavorare o semilavorare e perché non riescono a far fronte alle bollette dei consumi energetici.
Curare questa tragedia economica immane – che è solo agli inizi – coi voucher, l’abolizione del reddito di cittadinanza ed il regalino di pochi euro davanti ad un’infrazione mostruosa è da incompetenti assoluti.

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Direttrice: Stefania Piazzo
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