Categorie: Cultura

I Campi Flegrei, i terremoti e San Francesco

di Stefania Piazzo – Napoli trema. Gli splendidi Campi Flegrei allarmano. E ogni terremoto è un sisma di polemiche. Sui ritardi, sulle speculazioni. La natura, tuttavia, è sempre la stessa, siamo noi che non cambiamo. La migliore relazione sui terremoti, e sull’ultimo più devastante che ricordiamo come quello di Amatrice, ci arriva dal cantico delle Creature di San Francesco. E’ una relazione di rispetto che pone gli esseri viventi con pari dignità davanti al creatore e, per chi non crede, davanti all’uomo che è stato chiamato a custodire il pianeta.

Lo avevamo già scritto in altre occasioni, ma questa vale il peccato di ripetersi.

Se pensiamo a Francesco, non possiamo che riassumere in due parole l’eredità del suo cantico delle creature. Rapiti ed estasiati. Gli elementi chiave della sua lode erano quattro, le dimensioni terrestri con cui l’uomo deve misurarsi: acqua, terra, fuoco, vento. E se rileggiamo le sue parole, i concetti ricorrenti nel cantico sono la richiesta di perdono, la tribolazione, il sostegno reciproco, i problemi che l’uomo incontra. In altre parole, l’uomo non è padrone di nulla. Tribola e cerca consolazione, cerca relazione. Francesco ammette le debolezze umane, per cercare una via di salvezza. Ammettendo i propri limiti, spiega come poter salvare il mondo: nel rispetto della vita, in tutte le sue manifestazioni.

Perdonare dopo aver distrutto, trovare nuova energia per rinascere, trovare il giusto cibo. Mille anni fa, Francesco aveva già capito quello che noi intravediamo tra pregiudizi, culture, mode, scoperte, rapporti medici, sociologici….

Se non si passa attraverso le proprie debolezze, non si cambia il mondo. Infatti l’errore è uno e uno solo quando non si fa la cosa giusta: sentirsi più forti della natura, più forti di ciò che si mangia, più forti di ciò che viene divelto, più forti e quindi onnipotenti.

L’uomo che può fare quel che vuole credendosi centro dell’universo, più forte di di acqua, terra, fuoco e vento, ha però fallito.

E la terra, coi terremoti, ha insegnato per prima questa lezione, più e più volte. Dalla catastrofe di inizio secolo a Messina passando per il Friuli e l’Irpinia e l’Abruzzo. E ora le Marche e il Lazio. E per quello che ancora ignoriamo. Cambiano i connotati della geografia ma anche della storia, a riprova che anche i progetti si schiantano contro il sogno di onnipotenza umana.

Accadde in età dei Lumi,  il 1 novembre 1755. Fu allora che Lisbona perse 90mila vite, rasa al suolo da un cataclisma che si fece sentire anche in Marocco, nel resto della Spagna e in Portogallo. Non fu solo un terremoto, perché quella data decretò anche la fine di un progetto di espansione coloniale portoghese. La terra cambiò la storia, non fu l’uomo a cambiare la storia. Per Voltaire, col suo “Poema sul disastro di Lisbona” non c’era dubbio che si trattasse di una responsabilità divina, in realtà uno dei quattro elementi tra acqua, terra, fuoco, vento, decisero per tutti.

Ed oggi? La storia si ripete, ce lo ricorda anche Leopardi con la ribellione dignitosa della ginestra che reagisce allo  “sterminator Vesevo”, sapendo che prima o poi un’altra ondata di lava arriverà. Tutto già previsto, anche senza monitor e allerta via sms.

Credit foto Piazzo

Stefania Piazzo

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