di Laura Aresi – Avete sempre parlato “del” Covid, declinandolo al maschile? Bene: sappiate, cari padani, che avete sempre preso un granchio. A “bacchettarci” è nientemeno che il sommo linguista Claudio Marazzini, riconfermato nei giorni scorsi presidente dell’Accademia della Crusca, carica che ricopre dal 2014, ossia da ben tre mandati a questa parte.
L’espressione corretta sarebbe – anche se la discussione fra i cattedratici è ancora in corso – infatti “la Covid”, al femminile, a sottintendere il vocabolo portante “malattia”, sull’esempio dell’equivalente francese che appunto è di genere femminile: e non sarebbe proprio la prima volta che una lingua del sì ricalca termini tecnici d’oltralpe. La lirica italiana delle origini, del resto, è piena zeppa di riferimenti agli stati dell’animo e del corpo che mutuano da provenzalismi, poi divenuti patrimonio dell’italiano letterario e del parlato. E se ai puristi del “mi” padanissimo e smarcato dall’”io” italico non piacesse l’idea di far derivare tutto dalla folgorazione dei poeti federiciani per gli amori trobadorici, beh, possiamo appellarci tranquillamente al caro vecchio sostrato celtico e al substrato delle dominazioni dal Cinquecento in poi che caratterizza pienamente le lingue della Padania.
Son quelle notizie che arrivano sul gran finale, quando risulta persino liberatorio ricamare sulla forma e non sulla sostanza: almeno, questo ci pare di capire e di sperare. Un augurio, allora, ci sentiamo di esprimerlo: che, un po’ come “la Barbera” – e non diteci che non lo sapevate… – anche “la” coronavirus, come il buon vino, migliori col tempo e ci consenta di brindare definitivamente alla sua scomparsa.