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Covid – La strategia veneta e quella lombarda. Due Leghe, ma non da oggi

di Stefania Piazzo – Perché Veneto e Lombardia hanno gestito diversamente l’emergenza? Perché i lombardi sono diventati gli “untori” indesiderati, perché quattro procure indagano mentre il Veneto ha accelerato sulle riaperture e ha agito per tener testa alle linee guida nazionali, cercando percorsi differenziati? Nessuno è perfetto e sappiamo che anche i nas hanno ispezionato le rsa venete così come in altre parti del paese.

Come suo solito, la Fondazione Openpolis fa da palombaro e si cala negli abissi della gestione della cosa pubblica. E ha scandagliato la gestione Covid di Luca Zaia. Lo ha fatto prendendo in considerazione la tipologia di azione, il metodo di lavoro. Non vengono fatte valutazioni, non servono. Semmai servono i raffronti con la Lombardia e con due sistemi sanitari regionali completamente diversi, che arrivano da riforme radicalmente diverse. Quasi ci fossero due Leghe e due diversi approcci nella gestione della sanità. Dal 2015 in poi la riforma Maroni cambia le carte in tavola. Come poi vedremo.

Entrambe le Regioni arrivano da una stagione di tagli di posti letto, di ospedali chiusi, ma nonostante questo, il modello veneto di gestione dell’emergenza, che piaccia o non piaccia, ha portato a casa la pelle. Quello lombardo no. A Milano la fase 3 inizia con le indagini della magistratura.

Ma vediamo cosa hanno scoperto gli 007 di Openpolis.

Per cominciare, dalla task force al comitato tecnico scientifico fanno tutti capo al governatore Zaia, che è pure membro dell’unità di crisi.

Una piramide, si legge nel dossier, un vertice chiaro. Ma nella struttura, secondo Openpolis, ci sarebbero ruoli anche non chiaramente definiti, per “attori generalmente considerati cruciali, come il microbiologo Andrea Crisanti”. Strano, ma vero.

All’inizio dell’emergenza, sia il centrodestra che Italia Viva, ricorda il dossier, avevano proposto un super commissario nazionale con poteri straordinari per coordinare l’emergenza su tutto il territorio nazionale.

Ma l’11 marzo il premier Conte afferma così (fonte Agi): “Non c’è la minima efficacia nell’avocare a livello centrale le competenze delle Regioni. Sottrarre competenze alle Regioni sarebbe un errore. Sarebbe disfunzionale, non lo si può fare a emergenza in corso”.

Così invece Zaia: “Vista da Roma, l’autonomia è una sottrazione di potere. Vista da noi, è un’assunzione di responsabilità. Ma io credo che irresponsabile sia chi non vuole l’autonomia. Da qui, discendono certi pasticci” (da Il Corriere della Sera).

Chi ha tempo non perda tempo, vero?

In Veneto “Il 30 gennaio – si legge – veniva istituita la Task force regionale per la definizione di misure di prevenzione e controllo dell’epidemia di Coronavirus e a seguire, il 21 febbraio, l’unità di crisi regionale. Due giorni dopo la protezione civile ha poi effettivamente nominato Zaia soggetto attuatore della protezione civile per l’emergenza Covid-19, qualifica che permette ai presidenti di regione di agire in deroga alla normativa (Ordinanza del capo della protezione civile 630/2020)”.

In cima alla piramide c’era Zaia, ruolo che non appare così evidente in Lombardia, dove il governatore Fontana sembra un gregario del suo assessore al Welfare. Ma andiamo oltre. A fianco di Zaia ci sono gli assessori alla sanità, Manuela Lanzarin, e alla protezione civile, Gianpaolo Bottacin. Sono entrambe dentro l’unità di crisi, “diversamente da quanto accade ad esempio in Lombardia.”

Ma sia task force che unità di crisi sono dentro la stessa piramide, sotto il controllo del presidente della Regione.

Al gruppo si aggiunge un sottogruppo di supporto legale, coordinato da Franco Botteon dell’avvocatura della Regione, e il gruppo di supporto per le attività del soggetto attuatore, spiega ancora Openpolis. “Quest’ultimo più che un organo è un elenco di dirigenti dell’amministrazione regionale di cui si avvale il soggetto attuatore. Tra questi Nicola Dell’Acqua, direttore dell’area tutela e sviluppo del territorio, svolge il ruolo di dirigente coordinatore, oltre ad essere membro anche dell’unità di crisi”.

L’unità di crisi svolge funzione di “supporto dell’attività del Soggetto attuatore”. A sua volta l’unità di crisi “acquisisce i pareri tecnici della Task Force” mentre il comitato scientifico “fornisce il supporto scientifico al soggetto attuatore ai fini dell’adozione delle sue determinazioni”. Insomma, si parlano!

Il raccordo tra l’unità di crisi e la task force spetta a Francesca Russo, membro dell’unità di crisi che però è anche a capo della task force.

Occhio poi a questo passaggio: “Due esperte del settore inoltre fanno parte sia della task force che del comitato tecnico scientifico (di cui è membro anche Andrea Crisanti) che ha il compito di fornire “supporto scientifico al soggetto attuatore ai fini dell’adozione delle sue determinazioni”.

In più, nell’unità di crisi ci sono i due direttori delle aree che già si occupano di protezione civile e sanità e un dirigente per ciascun’area.

“Per l’area tutela e sviluppo del territorio si trovano il direttore Nicola Dell’Acqua e Luca Soppelsa a capo della direzione protezione civile. Per l’area sanità e sociale sono presenti invece il direttore Domenico Mantoan, nominato recentemente presidente dell’Aifa dal ministro della salute Roberto Speranza, e la responsabile della direzione prevenzione Francesca Russo”.

Spiega il dossier che “la presenza di Dell’Acqua nell’unità di crisi in aggiunta al ruolo di dirigente coordinatore per l’espletamento delle funzioni del soggetto attuatore sicuramente rafforza la linea di collegamento tra l’unità di crisi e il soggetto attuatore. Il raccordo tra l’unità di crisi e la task force è invece svolto da Francesca Russo. Questa infatti, in quanto responsabile della direzione prevenzione, oltre ad essere componente dell’unità di crisi presiede anche la task force, che ha istituito con proprio decreto. Inoltre si tratta della dirigente responsabile del coordinamento del piano “Epidemia Covid 19 Interventi Urgenti di Sanità Pubblica”.

Tutti sanno chi fa cosa. Giusto o sbagliato che sia, ed è in particolare la dr. Russo ad avere in questa mappa del potere di gestione e controllo, ad avere un ulteriore sottogruppo di lavoro: due dirigenti dell’area sanitaria regionale, 8 dirigenti delle unità locali socio sanitarie (Ulss), un dirigente dell’azienda ospedaliera di Padova, uno dell’azienda ospedaliera di Verona e due dirigenti dell’azienda zero, un’azienda regionale che ha come scopo la razionalizzazione, l’integrazione e l’efficientamento dei servizi sanitari, riporta il dossier.

Nel gruppo compare anche il dottor Paolo Rosi, della Ulss 2, già dal 2014 referente sanitario regionale del Veneto, inserito nella task force.

“In Veneto in realtà non è stata prevista la partecipazione del referente sanitario regionale all’interno dell’unità di crisi, mentre è stato inserito tra i componenti della task force. Anche in questo caso in realtà l’atto istitutivo della task force non esplicita il ruolo del dottor Rosi quale referente sanitario. Per conoscere chi svolgesse questa funzione abbiamo infatti contattato l’amministrazione regionale che ci ha risposto inviandoci l’atto con cui il governatore Zaia comunicava al capo della protezione civile la nomina di Paolo Rosi”.

Quanta gente lavora per l’epidemia?

Si contano 26 membri del comitato scientifico e della task force, poi ci sono sia nella task force che nel comitato tecnico scientifico Anna Maria Cattelan ed Evelina Tacconelli dirigenti dei reparti di malattie infettive delle aziende ospedaliere, rispettivamente di Padova e Verona, si legge nel report.

Nel comitato scientifico la parte del leone di questo strumento nato a inizio marzo, è fatta da membri delle aziende ospedaliere.

“Tra i suoi componenti – leggiamo – si segnala in particolare la presenza di Francesco Zambon, dell’organizzazione mondiale della sanità, di Stefano Merler componente anche della Task force dati per l’emergenza Covid-19 istituita dal ministro dell’innovazione Paola Pisano, e di Paolo Navalesi che fa parte anche della Task force Covid-19 della regione Calabria”.

“Alcuni pezzi mancanti”. Lo chiama così la Fondazione Openpolis il giallo Crisanti.
“A Crisanti non è stato assegnato un ruolo di spicco all’interno delle organizzazioni create per gestire l’emergenza (…). Crisanti in effetti è un membro del comitato scientifico. Tuttavia dagli atti di nomina che abbiamo avuto modo di analizzare non risulta che svolga un ruolo in alcun modo sovraordinato rispetto ai suoi colleghi”.

“Una sua funzione specifica può essere tuttalpiù desunta leggendo il testo del piano “Epidemia Covid 19 Interventi Urgenti di Sanità Pubblica”. Questo piano in effetti definisce laboratorio di microbiologia dell’azienda ospedaliera di Padova, diretto dal dottor Crisanti, come il laboratorio regionale di riferimento”.

Ma un’altra zona nebulosa riguarderebbe il ruolo del dottor Roberto Rigoli che, ribadisce il dossier, da diverse fonti stampa risulta essere stato “scelto dal governatore Zaia per coordinare le attività delle microbiologie del veneto”. Ma c’è un ma. “Il dottor Rigoli tuttavia non risulta membro di alcuna delle organizzazioni che abbiamo censito, né abbiamo trovato sul sito della regione atti ufficiali che meglio definissero questo ruolo di coordinamento”.

Un errore, una svista, una scelta politica?

Poi viene il dunque, ovvero la differenza tra Veneto e Lombardia. perché hanno agito diversamente e perché sul territorio sono state diverse le criticità?

“Secondo alcune interpretazioni – commenta Openolis – il fatto che in Veneto siano presenti solo due aziende ospedaliere e che tutti gli altri ospedali siano ricompresi nelle unità locali socio sanitarie ha aiutato a mantenere il collegamento tra gli ospedali e la medicina territoriale”. E’ la chiave di volta e la differenza sostanziale.

In Veneto gli ospedali sono all’interno dell’Ulss, “tranne i due ospedali universitari di Padova e Verona. Vi sono cioè solo due ospedali-azienda, e questo spiega alcune differenze con la sanità lombarda”.

La legge regionale veneta di riforma è del 1994 (alla luce del decreto legislativo 502/1992).

In sostanza, vengono create due aziende ospedaliere (Padova e Verona), restano in piedi 22 unità locali socio sanitarie (Ulss) (poi diventate 21). Una importante riduzione viene però operata da Zaia all’inizio del secondo mandato, da 21 si passa a 9 Ulss.

La Lombardia fa il contrario. Nella gestione Formigoni le aziende sanitarie sono 15, e 29 quelle ospedaliere. Poi con la riforma Maroni le aziende diventano 8 (Ats) e le Asst 27.

Ma ecco proprio oggi sul Corriere della Sera cosa dice al riguardo in una intervista Roberto Formigoni. “Durante le giunte che ho presieduto tra il ’95 e il 2012 la sanità lombarda nelle statistiche è sempre stata al primo posto, tranne due anni quando si è classificata al secondo. Dopo la riforma Maroni finì al settimo. Oggi è tornata al quinto. Quando Maroni sottopose la sua riforma ai medici di medicina generale il 77% gli disse no».
«Noi rafforzavamo il ruolo dei medici sul territorio, firmando numerosi accordi con loro e favorendone l’associazionismo soprattutto nelle
grandi città, perché dieci medici che lavorano insieme e
hanno migliaia di assistiti si accorgono molto prima dell’insorgenza di una pandemia. La nostra riforma fu varata nel 2012 con una delibera
di giunta votata anche dalla Lega, ma poi fu ignorata dalla
giunta a guida leghista che, invece, prevedeva un forte indebolimento della medicina territoriale. Maroni ruppe con i suoi collaboratori, alcuni assessori si dimisero, e quando presentò il testo definitivo ci fu un coro di no tanto che non fu votata dal Consiglio regionale, ma varata come atto di giunta».

Photo by Eugene Lim 

Stefania Piazzo

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