Categorie: Politica

Corsi e ricorsi della storia – Quando Mussolini volle vietare i termini “Regione” e “Veneto” dai documenti dello Stato

di Roberto Gremmo – Nella storia del nazionalismo italico, poco gloriosa, e che sarebbe tragica se non fosse spesso solo ridicola, troviamo gli ordini dati da Mussolini per cancellare dai documenti prima l’indicazione della Regione per qualsiasi località del Regno e poi il termine “Veneto”.

Le due norme sono fra il 1932 e il 1933 e si collocano nel momento in cui in parallelo scatenò la battaglia contro l’uso del dialetto, intensificò l’italianizzazione goffa e superficiale dei toponimi ed inventò il folklore italiano unico ed indifferenziato.

Per quanto solo formali, le avversità ai riferimenti regionali erano un altro modo di omologare tutti i sudditi, cancellare le loro identità e legarli in un unico fascio; in linea col roboante discorso del 9 novembre 1921 quando all’Augusteo di Roma il Duce trombonava che “il Fascismo deve volere che dentro i confini non vi siano più veneti, romagnoli, toscani, siciliani e sardi: ma italiani, solo italiani”.

Sia pure in ritardo di qualche anno, pronti via.

L’offensiva contro i localismi partì lancia in resta l’8 novembre 1932 con una perentoria direttiva del Duce che ordinava a tutti gli organi dello Stato di “evitare qualsiasi riferimento alla Regione”, un ente all’epoca non previsto fra le circoscrizioni amministrative del Regno, ma un termine di uso più che comune e soprattutto segno di specifiche appartenenze territoriali, culturali, linguistiche e comportamentali.

Fu un caos.

Mentre il ministro dell’interno non ebbe difficoltà ad omettere l’indicazione regionale nella schedatura dei (pochi, irriducibili) oppositori, il ministro dell’Educazione Nazionale si trovò in difficoltà perché i Provveditorati agli Studi dal 1922 erano coordinati “sulla base del criterio della REGIONE”, parola diventata impronunciabile e non si capiva a chi potessero far capo nel momento in cui si negava addirittura l’esistenza dei vari centri decentrati.

Anche il ministro dei Lavori pubblici non seppe che fare perché alla base delle sue strutture c’erano i “Compartimenti REGIONALI alle Opere pubbliche” ed i “Compartimenti REGIONALI di ispezione del Genio Civile” e adesso bisognava buttare via carta intestata, migliaia di cartelli, cambiare la collocazione degli uffici.

Il più deciso a mettersi di traverso fu, a sorpresa, il ministro della Guerra, ma solo perché non voleva dover modificare il libro in preparazione con l’elenco dei caduti di guerra del 15/18 che erano elencati divisi “Per REGIONI d’Italia”.

Alla fine prevalse lo spirito fascista d’obbedienza, anche se lo smaliziato ministro all’Educazione nazionale Francesco Ercole, dando di gomito al vicino, spiegò che la stolta direttiva sarebbe stata applicata in modo “soltanto formale”, cioè all’italiana. Per finta.

Ma non era finita, perché una nuova tappa della campagna antilocalistica partiva alla garibaldina dopo poche settimane da Arrigo Solmi, all’epoca sottosegretario di Stato “all’Educazione nazionale” (sic !).

Evidentemente interpretando i desiderata del Duce, il gerarca emiliano chiese ed ottenne dal Consiglio del Ministri che fosse vietato chiamare “Veneto” il territorio che tale era.

Secondo il gerarca, l’uso del termine “Veneto” sarebbe stato “un relitto della denominazione austriaca di “Lombardo-Veneto”” ed andava sostituito con quella di “Venezia Euganea”. Proposta subito accolta dal Capo del Governo.

Perché bisognava cancellare le reali identità dei tanti popoli costretti a sottostare ad uno Stato centralista, nato sulla violenza delle avventure militariste risorgimentali.

Questo voleva il Duce.

Ma non c’è riuscito.

Roberto Gremmo

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