di Stefania Piazzo – Anni fa mi trovai a pranzo, faccia a faccia, con Margherita Boniver, a casa di amici. Sì, lei, la craxiana e poi berlusconiana “Bonazza” a cui Umberto Bossi aveva detto dal palazzetto di Curno che “la Lega ce l’ha duro, ma di manico”. Oddio, mi ero detta a tavola, come mi presento? Poi all’ex ministra con un’intensa attività di relazioni internazionali, rammentai di aver diretto anche il quotidiano la Padania. Di quel Bossi. E lei: “Uomo molto simpatico e intelligente. Come sta?”.
Quell’ “uomo intelligente” nel 2000 aveva salutato la morte dell’amico di Boniver, Bettino Craxi, con gli onori con cui si saluta un uomo di grande statura politica, ma aveva anche dato del Berluskaiser al segretario della stessa ex senatrice Boniver. Del Cav, Bossi fu ministro, e amico.
Ecco, Bossi ha sempre usato il linguaggio come strumento di rottura dei vecchi schemi della politica, riuscendoci. Era un linguaggio “metapolitico”, funambolico, empatico, eretico, lui diceva le cose che non si aveva il coraggio di dire. Tolse il tappo alla rabbia, proponendo una valvola democratica di sfogo, la via del federalismo.
Poi, il 5 aprile 2012 con le sue dimissioni, iniziò l’era dei castelli di sabbia. L’inizio della fine della Lega che tanti avevano “sognato”, perché quel sogno era la contrapposizione con un altro mondo, quello della conservazione, dell’immobilismo. Bossi era una Ferrari, gli altri una stationwagon.
In 40 anni il mondo è cambiato più volte. La Lega è nata nel piano mediano che vedeva agli opposti le ideologie, la cortina di ferro, il Muro. E’ nata senza internet, è andata a governare le città, le regioni, i comuni, senza i follower. Oggi Umberto Bossi a Gemonio filtra dall’oblò di casa, come in orbita sul Parlamento che vede a distanza, un paese pieno di contraddizioni, di interessi forti che gli stanno stretti. Oggi come allora.
Il pomeriggio del 5 aprile 2012, date le sue dimissioni, chiamai la sua segretaria, la Maura. E le dissi di riferire al “Capo” se volesse rilasciare un’intervista per il suo quotidiano.
Scese dopo qualche ora. Chiusi la porta dell’ufficio e prendemmo un caffè. Fui la prima a raccogliere le sue emozioni e il suo pensiero dopo quello strappo tremendo.
“Il fatto che io abbia dato le dimissioni non vuol dire che io scompaia. Se lo scordino – disse -. Resto nella Lega, da ultimo sostenitore o da segretario io resto sempre a disposizione della causa”.
“Da domani mi chiameranno militante. Anzi, no. Semplice simpatizzante”. Sull’inchiesta sottolineò che si trattava di “una manovra chiara contro di me e il partito…. Tutta la manovra è chiara: è contro di me e la Lega. Chi ha dei dubbi su questo? Se un amministratore è in combutta da anni con una famiglia della ‘ndrangheta, perché si viene a sapere solo adesso? Prima no? Insomma, i tempi sono strani”.
Poi, ancora: “Abbiamo nominato gli uomini che devono andare a fondo nelle cose, verificare, controllare. Non c’è nulla da nascondere”.
“Il peso di un uomo – mi disse – non lo fa la carica, non dipende solo dalla carica, dal titolo, ma dal cervello, dalla testa e dal suo cuore”. Anche se “avrò più tempo da dedicare alla mia famiglia, che in tanti anni ha subito la mia assenza continua. Ma io non vado via, io resto qui. Chiaro a tutti? Io non mollo la battaglia per la libertà del Nord. Altri porteranno avanti il progetto, ma la Lega resta”.
Cosa è rimasto? Un grande vuoto, politico, nella politica del Nord e del Paese. Lui è a disposizione della causa, ma quanti, tra chi è rimasto ed è uscito, ha avuto la forza e il coraggio, in questi anni, di invertire la rotta del partito? Il punto è che il “peso di uomo lo fa il cervello, la testa e il cuore”. Soprattutto il primo.