I militari del Nucleo di polizia economico finanziario della Gdf di Milano, con i colleghi del Nucleo speciale tutela privacy e frodi di Roma, hanno notificato un provvedimento di sequestro per quasi 322 milioni di euro nel secondo filone dell’indagine milanese, aperta nel 2018, su una maxi truffa attraverso i servizi di telefonia che questa volta ruota attorno a Tim, azienda che non è indagata. Il decreto di sequestro, firmato dal gip su richiesta dei pm, riguarda altre 5 società che con l’azienda di tlc – a cui sono stati congelati quasi 250 milioni – avrebbero venduto cosiddetti “servizi vas”. Gli indagati sono oltre 20.
In questo secondo filone dell’indagine, coordinata dal pm Francesco Cajani e dall’aggiunto Eugenio Fusco, gli indagati, tra i quali alcuni all’epoca dipendenti Tim senza ruoli apicali, risposta di frode informatica (articolo 640 ter del codice penale). Il decreto di sequestro, firmato dal gip Patrizia Nobile, al netto dei circa 250 milioni di Tim , riguarda altri 70 milioni e oltre di euro spalmati su cinque società con sedi tra Milano, Roma, Torino e Madrid, che avrebbero realizzato e lavorato per la vendita dei servizi aggiuntivi a pagamento e non richiesti dai clienti. La prima tranche dell’inchiesta, aperta nel 2018 e da qualche mese al centro di un processo che si sta celebrando davanti al Tribunale di Milano, ruotava attorno a WindTre, società anch’essa mai indagata ma che ora è citata come responsabile civile nel dibattimento in cui sono imputati alcuni dei suoi ex manager. Anche in questo caso la presunta truffa da circa 99 milioni aveva portato a rilevanti sequestri e, oltre al processo di primo grado (per l’imputazione di tentata estorsione contrattuale si deve ricelebrare l’udienza preliminare), a sette patteggiamenti e ad una restituzione di 18,5 milioni di euro. La Procura aveva ipotizzato un sistema illecito che, tra il 2017 e il 2020, avrebbe consentito una “media di 30/40mila attivazioni” indebite “al giorno” di “servizi premium, cosiddetti Vas”, ossia giochi, oroscopi, suonerie, per ” ignari consumatori che si vedevano addebitare i relativi costi pari a 5 euro a settimana”.