Categorie: Opinioni

Massimo Fini e la Padania delle macroregioni di Bossi. “Era troppo avanti. Intuito e semplicità che oggi manca nei leader di partito”. E nella Lega

di Stefania Piazzo – Tutto si può dire tranne che Massimo Fini, oggi editorialista su Il Fatto, quando esprime il suo pensiero debba rendere conto a qualcuno o la faccia per tornaconto. Comodo o scomodo a seconda dei punti di vista, racconta, anzi, analizza i fatti politici.

E quando si parla di “politica”, occorre distinguere tra chi l’ha fatta e chi la usa. Nella prima categoria, nel pezzo uscito martedì 26 settembre, Fini ci mette Umberto Bossi. Nella seconda, ci infila Matteo Salvini.

E va giù molto pesante. Si legge che “a differenza dell’usurpatore Matteo Salvini, un razzista antropologico, Bossi non era razzista. Disse, “la Padania è di chi ci vive e lavora”. Sul Po e la sua liturgia, scrive che “erano miti sentimentali, non politici”. Occorrerebbe ricordarlo perché nel 1996 la Digos entrò nella sede di un partito politico. E ministro dell’Interno era il Re Giorgio oggi celebrato da tutti. Lo stesso che aprì all’arrivo di Mario Monti prima senatore a vita e poi premier. Ma è un altro capitolo, politico.

Fini va ancora avanti, e ricordando il periodo bossiano dell’indipendentismo, commenta che “era un visionario, non un folle”.

D’altra parte erano gli anni delle macroregioni. A Bossi i voti servivano per questo. A Salvini, per quel che è dato vedere, sono serviti per archiviare padanie varie, prima il nord e tutto il resto. Un lettore, ed ex vicesegretario della Lega di Barzanò, nel lecchese, l’altra settimana ha parlato di “ossessione per il Ponte sullo Stretto”. Ha detto tutto, Lucas Casati, considerando che poi Roberto Castelli, altro dimissionario illustre, nella sua conferenza stampa ha sostenuto che di opere in Lombardia per il collegamento delle Olimpiadi Milano-Cortina non se ne vedono. E qui viene ancora da ripetere che Bossi faceva politica, il segretario nazionalista la politica la usa. Per il consenso breve. E si vede.

Fini non esita a definire il progetto dell’autonomia nebuloso, “non si capisce più quali siano le competenze dello Stato” e rimpiange le “tre macroregioni Nord Centro Sud, coese per socialità, cultura e anche clima”. “Ci sarebbero molto utili adesso”, ma…. “furono stoppate dalla partitocrazia”. Come adesso, peggio, dalla partitocrazia leghista e dai governatori leghisti e di centrodestra che non usano la Costituzione vigente per realizzarle. Questo è il dato di fatto e che dice che le priorità di Salvini non sono queste.

Schiacciato dalle migrazioni, dalle mosse di se stesso da elefante verso i partner europei in materia migratoria, in rincorsa populista sull’alleata Giorgia Meloni, usa il palco mediatico del governo per urlare, non per fare. Perché il fare, insegnava Bossi, si fa in silenzio. E “quando il tuo nemico si muove”, mi disse una sera alla redazione della vecchia Padania di carta, “tu devi stare ferma e aspettare”. E mettendo i due piedi sulla mattonella, mi diede una lezione sull’arte della guerra. Certo è che poi Bossi quando parlava, apriva i muri, rilanciava, faceva contropiede. Salvini, deve usare la ruspa e demolisce.

Il problema è infine che le macroregioni, sostenute da Miglio, che il giornalista elogia, erano troppo avanti nel tempo. Certo, la visione bossiana era per una Europa delle macroregioni, punto di arrivo del fallimento degli stati nazionali. Il Nord, la Padania, non ha nulla a che vedere con le terre eredi del regno delle Due Sicilie, ma in un sistema di autonomie o di federalismo a velocità “variabile”, tutto sarebbe stato più utile per chi è un passo avanti e per chi fatica ancora a farlo. Ma sappiamo come è andata. E come sta andando.

Poi Fini non smette di stupire, ricordando la semplicità del quotidiano bossiano, rispetto a quello di Salvini. Bossi, l’uomo della pizza, in pizzerie normali, quelle di tutti i giorni. L’altro segretario, invece, un pelo più diverso, da papeete e inno d’Italia in spiaggia.

A Fini, lo si legge dalla prima all’ultima riga, manca Umberto Bossi politico e uomo. Ha insegnato a una generazione di politici e giornalisti la passione per la politica, o, più che altro, per capirla, raccogliendo gli stimoli e i bisogni della gente comune. Bossi era il suo popolo. Vai a spiegare a Salvini cos’è il popolo senza i like e le condivisioni effimere. Ha ragione Fini ad accostare la debolezza fisica del Senatur all’Italia di oggi. Senza Bossi, l’Italia ha preso un’altra strada.

Credit foto Piazzo

Stefania Piazzo

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