Categorie: Opinioni

Autonomia differenziata, pensata per non farla partire

di Raffaele Piccoli – Il progetto di autonomia differenziata è previsto dall’art. 116 della Costituzione Italiana. La maggioranza attuale su istanza della Lega lo ha introdotto nel programma di governo.  La legge quadro predisposta dal Ministro per gli affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli  è ora all’esame della commissione affari costituzionali del Senato.

Non voglio addentrarmi in questa sede sul ” problema ” dei lep, in quanto ci porterebbe lontano dal nocciolo della questione.

Il punto fondamentale che non viene considerato, non è pertanto quello dei lep, ma quello della dimensione  e dell’organizzazione delle regioni che saranno chiamate ad attuare il progetto di autonomia differenziata, una volta concluso il processo di approvazione. 

Ancora non sappiamo chi effettivamente chiederà l’attribuzione di tutte o solo di una parte delle 23 materie che il citato articolo 116 prevede per le regioni a statuto ordinario, ma il semplice esame delle varie strutture e organizzazioni regionali fa sorgere più di un dubbio. Prendiamo ad esempio i due estremi dello schieramento. Da un lato la Lombardia con 9.953.272 abitanti e dall’altro il Molise con 289.647 residenti, ma possiamo continuare cercando di raffrontare l’organizzata Emilia-Romagna con la problematica Calabria, e questo solo per fare qualche esempio.

Da quanto detto appare evidente che l’applicazione tout court della riforma porterà degli squilibri importanti. Ora la questione vista dal Nord Padano potrebbe apparire secondaria e ininfluente, non è cosi. Sarebbe infatti come volere far indossare il medesimo abito ad una persona grassa e ad una  magra. Il regionalismo italiano nato nel 1948 con la Costituzione repubblicana è stato definito nelle linee guida e nei confini regionali a tavolino. L’applicazione del regionalismo differenziato corre il rischio di mettere in crisi proprio l’istituzione regione, finendo per essere di supporto a chi vorrebbe eliminarla in quanto inefficiente, riportando il tutto a livello ministeriale.

Sono ben lontano da quanti nel Mezzogiorno si stracciano le vesti e gridano allo scandalo e alla spaccatura del paese.  Gli amministratori locali, i sindacati, i partiti di opposizione, le associazioni culturali, sono tutti strenui difensori dei diritti costituzionali solo se a loro favorevoli, e hanno  una sola e vera motivazione: mantenere il flusso di risorse che scorre  da Nord a Sud, cioè l’assistenzialismo.

Si può eccepire che non vi è l’obbligo di richiedere l’autonomia per le regioni che non lo desiderano, vero. Teniamo però presente che la competizione e l’opportunità politica degli amministratori locali giocherà un ruolo importante nelle scelte. Non scordiamo inoltre  che lo stato centrale, privato di parte dei residui fiscali Padani potrebbe avere qualche difficoltà nel mantenere l’attuale flusso di risorse per le regioni meridionali.

Ma veniamo al nocciolo della questione. L’autonomia differenziata è una sorta di mezza via, di pannicello caldo di compromesso tra centralisti e pseudo federalisti, figlia della riforma costituzionale del 2001, voluta dalla sinistra  al tempo terrorizzata dalla Lega secessionista di Umberto Bossi. 

La vera soluzione non è una pseudo autonomia farraginosa e complicata da applicare.  La soluzione ottimale è una vera e reale riforma federale sul modello svizzero o tedesco.  Regioni stato di almeno 4/5 milioni di abitanti dotate di propria costituzione e proprio parlamento. Confini  scelti con referendum dai cittadini interessati. Una capitale  extraterritoriale,  con uno status autonomo.  Un premier eletto democraticamente da tutti i cittadini.

L’Italia arranca da sempre, combattendo  con le mezze misure, i decreti d’urgenza, la legislazione speciale, il compromesso politico e la questione di fiducia. Come detto arranca e conta sullo stellone italico. Auguriamoci che questo continui a brillare.

Redazione

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