Categorie: Cultura

Dalla Cina con la macchina da presa. Il capolavoro dagli occhi a mandorla di John Woo

di Matteo Ferrario – Avete mai visto Bullet in the head? 1967, tre piccoli criminali, devono andare da Hong Kong a Saigon per concludere un affare e uscire dalla miseria in cui vivono.

All’arrivo nella città in guerra tutto quello che può andare storto va storto e la loro amicizia verrà messa a dura prova.

Una delle più frequenti critiche che sento fare ad un film quando non piace è: “Era inverosimile”. Ma un film non è realtà: è solo una simulazione di essa quindi perché dovrebbe essere verosimile? Non è forse più importante che sia coinvolgente?

Per me sì e, stando a quello che vedo, anche per il pubblico asiatico.

La verità è che l’Asia è culturalmente diversa dall’Europa e anche il suo cinema gioca secondo regole diverse.

Il cinema di John Woo, seppure lui sia più occidentale altri suoi connazionali, è pur sempre un cinema orientale e va trattato come tale.

Personalmente ho sempre apprezzato la sua arte che, in apparenza priva di contenuto, in realtà è molto più profonda di quello che sembra.

Oggi mi accingo a recensire quello che, a mio modesto avviso, è uno dei sui capolavori.

Sto parlando di “Bullet in the head” 1990.

Questo film parla di tante cose insieme: parla della politica, della guerra, della crudeltà, della povertà, della maturazione individuale ma prevalentemente è un film che parla dell’amicizia.

E Woo ne parla in maniera realistica e, per certi versi, disincantata.

I tre protagonisti (caratterizzati perfettamente fin nei minimi dettagli) sono tre amici fraterni che, per vicissitudini che non vi anticipo, vengono catapultati da Hong Kong ad una Saigon nel bel mezzo della guerra e lì dovranno maturare o morire sotto una pioggia di pallottole.

Inutile dire che è un film d’azione violentissimo ma la violenza non è affatto gratuita anzi è perfetta per raccontare il mondo in cui i personaggi si ritrovano a lottare per la vita.

D’altronde mostrare la violenza non equivale a dire che essa sia giusta e nasconderla in certi casi è controproducente.

Le coreografie delle sparatorie poi! Sono tra le migliori che Woo abbia mai realizzato e stiamo parlando di un maestro che in questo ha fatto scuola a livello mondiale.

Le musiche spesso non enfatizzano l’adrenalina dell’azione ma piuttosto la cruda presa di coscienza su quello che i personaggi sono diventati e la nostalgia della loro innocenza ormai perduta.

È un film che diventa sempre più cupo come se i tre stessero sprofondando in un vortice di violenza dal quale difficilmente si esce. E se si esce non si è più gli stessi.

Il montaggio è un’opera d’arte, soprattutto nell’immancabile scontro finale che chiude in maniera perfetta questo avvincente e straziante viaggio all’inferno.

All’epoca fu il film più colossale mai realizzato da Hong Kong e, come molti altri capolavori, uno dei suoi più grandi fiaschi al botteghino.

Visione consigliata.

Redazione

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