Categorie: Opinioni

In Italia mai nessuno politico chiede scusa e si dimette

di Giuseppe Olivieri – Non ci stancheremo mai abbastanza di ritenere il senso di responsabilità, insieme alla competenza tecnica e all’umiltà, una condizione essenziale per poter gestire la res publica.

Mark Rutte, da pochi giorni riconfermato premier olandese, a gennaio si era dimesso dal suo incarico perché il sistema fiscale dei Paesi Bassi aveva illegittimamente chiesto alle famiglie olandesi la restituzione di alcuni bonus ottenuti negli anni passati.

Angela Merkel, cancelliere tedesco, dopo aver istituito un lockdown in occasione di Pasqua, l’ha revocato, chiedendo scusa.

In Olanda ci si dimette anche quando non si hanno responsabilità dirette.

In Germania si chiede scusa quando ci si rende conto di aver assunto provvedimenti non congrui con le esigenze dei cittadini.

In Italia è difficile ricordare un esempio di dimissioni per scarso senso di responsabilità.

Umberto Bossi nel 1994 invitò i suoi cinque ministri del primo governo Berlusconi (Comino, Gnutti, Pagliarini, Speroni, Maroni) ad abbandonare lo scranno ministeriale e tornare nei rispettivi territori. Qui però non vi erano scandali da riparare, ma il semplice pretesto di non accettare la riforma delle pensioni di Lamberto Dini, agendo quindi per strategia politica o per reale senso di rispetto nei confronti dei propri elettori. Altri tempi. Altra Lega.

In Italia tendenzialmente vige il principio del “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto…Chi ha dato, ha dato, ha dato…Scurdámmoce ‘o ppassato”: si persevera, per esempio, nel sostenere la criminalità comune e organizzata, senza che mai nessuno pensi ad abbandonare lo scettro del potere.

Il reddito di cittadinanza, istituito dal primo governo Conte con i voti di Lega Salvini Premier e Movimento 5 stelle, ha rappresentato non solo un esempio di iniziativa intrapresa per un immediato consenso elettorale, ma anche l’ennesimo provvedimento di finanziamento a pioggia elargito senza verificare meticolosamente i beneficiari. Così, oltre a poche famiglie realmente bisognose, comunque già in precedenza destinatarie di altre sovvenzioni ora abolite, il reddito di cittadinanza ha sostenuto economicamente anche persone sottoposte a misure cautelari per omicidio, spaccio di droga, sfruttamento della prostituzione e affiliati a cosche mafiose.

Cercare di annullare questo provvedimento, o almeno modificarlo, sembrava potesse essere un’iniziativa del governo Draghi, ma subito si sono alzati gli scudi da parte di chi vedrebbe toccati i propri interessi.

L’Adnkronos riferisce di una telefonata minatoria ricevuta dal “Movimento Draghi Presidente” poche settimane fa: “Se tocca il RDC, lui fa la fine che ha fatto Falcone”. Così una voce anonima “con evidente inflessione siciliana” ha minacciato il presidente del Consiglio rivolgendosi alla portavoce del suo movimento che ha presentato denuncia presso la Questura di Roma.

Non so se mai conosceremo gli esiti di questa vicenda. Ad oggi nessun politico ha espresso le preoccupazioni e lo sdegno che sono propri di chi ha a cuore le sorti dei propri cittadini e di chi intende monitorare l’applicazione dei provvedimenti approvati.

Mettere mano al RDC rischierebbe ora di provocare una sollevazione popolare da parte di chi, grazie ad esso, ha fruito di grandi vantaggi. L’aggravante risiede nel fatto che nessun politico penserà mai di rassegnare le proprie dimissioni e di chiedere scusa a chi con fatica contribuisce a sostenere le entrate di questo stato.

E’ evidente il fatto di essere giunti allo scontro finale fra i pagatori di tasse e i consumatori di tasse. I primi, pure minacciati, sono sempre di meno. I secondi sono in costante ascesa. L’inversione di questa tendenza richiede coraggio e grande senso di responsabilità. Difficile trovarli nel substrato culturale italico.

Audio: https://www.youtube.com/watch?v=ilCq6IEwBZg

Redazione

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