Categorie: Opinioni

I 100 anni del Partito Comunista. C’è ben poco da celebrare. I rivoluzionari diventati puntello della conservazione

di Roberto Gremmo – Starnazzanti ed invadenti, proprio i personaggi da salotto e da tolk che lo hanno ucciso, si esubiscono oggi nella celebrazione apologetica del defunto “Partito Comunista italiano” e, degni figli della scuola togliattiana di falsificazione, raccontano una storia che si sono cuciti addosso, parziale, edulcorata e, in fondo in fondo, completamente inventata.

Nel 1921 il Partito Comunista nacque a Livorno come Sezione della Terza Internazionale e con l’illusione di essere il motore della rivoluzione proletaria, ma la nuova formazione era già fuori tempo, perché il “momento buono” era inesorabilmente passato col fallimento dell’occupazione delle fabbriche. Nel nuovo Partito, Gramsci e Togliatti (quest’ultimo nemmeno presente al congresso) ebbero un ruolo marginale e protagonisti della scissione furono Amadeo Bordiga e Nicola Bombacci; quest’ultimo uomo di fiducia dei dirigenti bolscevichi che da subito misero una forte ipoteca sul gruppo, finanziandolo di nascosto ma pretendendo una disciplinata sudditanza.

Proprio la dipendenza da Mosca, legittima per chi si illudeva col mito del “Paese della rivoluzione”, meno limpida da parte di coloro che prendevano i rubli di nascosto, doveva provocare le prime crepe interne e la liquidazione politica di un Bordiga che testardamente non si rassegnava a mandare in soffitta il sogno rivoluzionario.

Dai vertici scomparvero subito coloro che credevano ancora in un ordine sociale nuovo e più giusto e di loro si ricorda soltanto la preziosa raccolta di biografie edita di recente dalle edizioni “Lotta Comunista” in occasione del centenario. La sconfitta del vero fondatore del Partito venne ottenuta anche con mezzi spregevoli e sbrigativi. Onorato Damen che capeggiava il “Comitato d’Intesa” bordighista ricordava il ricatto di Gramsci ai funzionari di partito, minacciati di licenziamento se non su fossero allineati sulla nuova linea di totale sudditanza ai ‘desiderata’ di Stalin.

Venne poi il Fascismo, vittorioso anche per la pusillanime inerzia della Dinastia e per le complicità della classe politica liberale (il “listone” voluto da Giolitti). Gioco forza, finito fuori legge il Partito Comunista dovette ripiegare in un infruttuoso esilio all’estero, fra le banlieues parigine e il lussuoso hotel Lux.  Decine di militanti vennero mandati allo sbaraglio dal nuovo capo Togliatti, già perduti in partenza, solo per ‘dimostrare’ ai caporioni di Mosca che l’opposizione Comunista era viva ed attiva in un’Italia che era invece totalmente ed entusiasticamente fascistizzata.

Al contempo, dal comodo rifugio all’estero, Togliatti e Grieco tendevano vergognosamente la mano ai “fratelli in camicia nera” e Mosca faceva buoni affari col Regime di Mussolini e la Fiat del senatore Agnelli.    Ancora “Il Migliore” doveva tornare in Italia dopo lo sbarco degli Alleati per richiamare all’ordine un Partito riottoso ad ubbidire agli ordini di Stalin che non voleva fastidi nella parte d’Europa d’influenza anglo-americana ed obbligava i militanti che ingenuamente “aspettavano Baffone” a fare lingua lingua con Badoglio, il Re doppiogiochista e i partiti trasformisti della peggior borghesia politicante.   

Come ha documentato lo studio controcorrente del compianto amico Valerio Riva nel libro “Oro da Mosca”, nel Dopoguerra il “Partito nuovo” di Togliatti e della Nilde visse comodamente con le valigiate di dollari arrivati di nascosto dal Kremlino e ovviamente si guardava sempre dal tirare troppo la corda; anche quando l’attentato al capo del PCI aveva spinto i più ingenui ed avventurosi amici di Secchia a tirar fuori i mitra dai solai.

Il Partito, tutto Parlamento, bollini delle tessere e feste dopolavoristiche con le salamelle per l’unità era prospero, grosso e robusto, con un apparato elefantiaco di funzionari e passacarte ma proprio la sudditanza finanziaria ai sovietici lo obbligava ad inghiottire i rospi più indigesti dell’invasione imperialista dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968 quando tutti i dirigenti (esclusi quelli del “Manifesto”) applaudirono i carri armati che sparavano sugli operai.

Piano piano ma inesorabilmente, l’imborghesimento del PCI divenne sempre più forte; più esplicita la compromissione con il grande capitale (vedi Togliattigrad) e più evidente e vergognoso l’abbandono dei ceti popolari, lasciati senza difesa al loro destino e costretti a cercare altri difensori (come le leghe autonomiste).

Quando alla Bolognina Achille Occhetto sull’orlo del precipizio liquidava le scorie ideologiche, lasciando al solo Cossutta il vecchio e frusto bagaglio demagogico, non faceva che proseguire sulla linea di trasformismo, camaleontismo ed opportunismo di un Partito nato per fare la rivoluzione e finito puntello della conservazione capitalista parassitaria. C’è ben poco da celebrare.

Roberto Gremmo

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