Categorie: Cultura

Il Papa, il mio Natale con i nonni e i 400 cappelletti della zia

Quando ero bambino, in Argentina, a Natale “alcune volte andavamo da una zia, alla sera, perche’ a Buenos Aires e nella nostra famiglia non c’era in quel tempo l’abitudine di festeggiare la vigilia come oggi. Si festeggiava il 25 di mattina, sempre dai nonni”. Cosi’ Papa Francesco, in una intervista, ricorda i Natali della sua infanzia. “Ricordo una volta una cosa curiosa: siamo arrivati e la nonna stava ancora facendo i cappelletti, li faceva a mano. Ne aveva fatti 400! Eravamo sbalorditi. Tutta la nostra famiglia era li’: venivano anche zii e cugini. Solo da adolescente ho cominciato a festeggiare un po’ anche la vigilia, a casa di una sorella di mia mamma che abitava vicino”. Oggi al Natale “mi preparo bene, perche’ il Natale e’ sempre una sorpresa. E’ il Signore che viene a visitarci, e io vivo questo arrivo con la mistica dell’Avvento: aspettare un po’ di tempo e predisporsi per incontrare Dio, che rinnova tutto in bene. E poi amo tanto le canzoni natalizie, che sono piene di poesia. Silent Night, Tu scendi dalle stelle… trasmettono pace, speranza, creano l’atmosfera di gioia per il Figlio di Dio che nasce sulla terra come noi, per noi”.

Diverso il festeggiamento, da piccolo, per i compleanni: “In casa eravamo cinque fratelli. Oltre a me c’erano Marta Regina, Alberto Horacio, Oscar Adrian e Maria Elena. Il giorno del compleanno era sempre una festa per tutta la famiglia. Venivano i nonni, gli zii… Mia mamma faceva il cioccolato da bere, molto denso”. Poi magari una partita a calcio, in strada. “Vicino a casa nostra c’era una piccola piazza. Vi arrivavano tre strade e formavano una specie di triangolo. Quello era il nostro campo da calcio. Tutti i ragazzi del quartiere giocavano li’, a volte veniva anche qualche ragazza. Non sempre c’era qualcuno che portava il pallone di cuoio e allora giocavamo con un pallone di stracci, la pelota de trapo. In Argentina il pallone di stracci e’ diventato un simbolo culturale di quell’epoca, a tal punto che un poeta popolare ha scritto una poesia chiamata Pallone di stracci, e c’e’ anche un film intitolato Pallone di stracci, che fa vedere questa “cultura” dell’epoca”. Gli altri ragazzi “mi chiamavano pata dura, letteralmente ‘gamba dura’: questo soprannome me lo avevano dato perche’ non ero molto bravo. Allora stavo in porta, dove mi arrangiavo. Fare il portiere e’ stato per me una grande scuola di vita. Il portiere deve essere pronto a rispondere ai pericoli che possono arrivare da ogni parte…”.

Redazione

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