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Referendum, grimaldello per togliere o aggiungere potere? Lo spiega Menenio Agrippa

di Giuseppe Rinaldi – Erede di blasonate consultazioni del passato, questo referendum non ha una grande presa sull’elettorato, forse perché al pari degli stessi partiti, suscita sacche d’incertezza e di ripensamenti.

Non ha il grande “appeal” dei suoi fratelli maggiori. Primo fra tutti il referendum costituzionale del giugno del 1946 quando dovevasi scegliere a chi affidare i destini della Patria: alla monarchia o alla repubblica cui la vittoria arrise. Fu un irripetibile momento in cui si sussurrò di brogli, schede prevotate, tenute nei cassetti del Viminale, ma non fu così.

La Repubblica vinse perché la monarchia non aveva più spazio in un’Italia dilaniata dalla guerra che il Re aveva avallata. Piuttosto si può affermare che fu una consultazione formalmente scorretta, in quanto al voto non poterono partecipare migliaia di prigionieri di guerra, ancora lontani dall’Italia e, viepiù, non furono ammesse al voto le province della Venezia Giulia perché ancora contese tra Jugoslavia e alleati.

Nel 1974 seguì quello sull’abrogazione della legge Fortuna-Baslini, con la quale era stato introdotto in Italia il divorzio. Vinsero i “no” e la legge rimase in vigore.

Nel 1993 ci fu tra l’altro il quesito referendario relativo all’abrogazione della legge che aveva istituito il Ministero dell’agricoltura e delle foreste. In questo caso vinsero i “si” e il Ministero cessò d’esistere, tranne poi risorgere dalle sue ceneri come l’Araba Fenice o come un Lazzaro della politica. Fu una vicenda surreale umiliante per la volontà popolare, sulla cui base si formo molto dell’attuale astensionismo. La gente iniziò a pensare “…che voto a fare? Tanto fanno sempre ciò che vogliono.” Intanto quel Ministero cassato dal voto referendario risorse con la dizione «Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali». Stesse deleghe, ma nome differente… 

Figlia di un dio minore, per il brutto momento economico e sanitario che si sta vivendo che non agevola la riflessione sul quesito da parte del corpo elettorale, questa chiamata alle urne, diversa per ragion d’essere dalle precedenti giacché referendum confermativo senza quorum, è un momento da non sottovalutare. Infatti, prima di tutto è un esercizio di democrazia che va onorato, secondo perché questa volta si offre al “popolo” la chiave di un effetto “domino”. Nella realtà, qualunque sia il responso delle urne, ma soprattutto in caso di vittoria dei “si”, sarà “d’uopo” (avrebbe detto Totò), mettere mano a una nuova legge elettorale volta a liberare il Parlamento dai “nominati” dalle segreterie dei partiti, riservandolo agli “eletti” dal popolo.

Questi devono rappresentare i territori in cui cercare i voti casa per casa, così da essere conosciuti mettendoci la faccia e affinché verso di essa il cittadino deluso possa puntare il suo dito inquisitore (sconsigliabile infilarlo nell’occhio, in quanto aggressione).

Siamo di fronte ad un’ultima occasione che i partiti non possono perdere se vogliono sopravvivere alla delusione nazionale.

Sempre nell’ottica di rinnovamento non può passare inosservata la cura da prestare, in prospettiva e di conseguenza, a due piaghe che rendono, l’una “pesanti” i lavori parlamentari e l’altra vergognosa l’azione del singolo, attraverso l’eliminazione del bicameralismo e l’abrogazione dell’art. 67 della Costituzione. E’ disonorevole che un rappresentante del popolo eletto in una lista di cui ha sposato i programmi e gli impegni, nel bene o nel male, facendosi della stessa personalmente garante, cambi casacca quando non si trovi più a proprio agio in un dato contesto.

In questi casi c’è l’istituto delle dimissioni non quello dell’uccello saltatore. L’ossessiva giostra di onorevoli e senatori che cambiano casacca (solo per ricevere un puntuale stipendio mensile visto che fuori dovrebbero, invece, cercarselo giorno dopo giorno), facendosi tutto l’emiciclo non è esercizio di democrazia ma di mal costume. A distanza di oltre settanta anni da quando fu introdotta, con l’art. 67 nella Costituzione, la norma non ha più ragion d’essere per il mutato clima politico rispetto il post fascismo e per i mutati sentimenti d’onestà politica dei suoi membri.

Ricordiamo che i Padri costituzionalisti avevano inserito questa norma per rimarcare che i parlamentari, dopo che sono eletti, rappresentano l’intera nazione e non singoli soggetti o gruppi di essi. Tutto bene, ma quando il troppo stroppia ciò snatura ogni buona intenzione. Nella legislatura precedente a questa si sono contati quasi 600 cambi di casacca, con gente che ha saltabeccato da qui a là rimanendo in un gruppo solo giorni “uno”. Poi altro giro altra corsa.

Forse questo referendum sarà figlio di un dio minore, perché capitato in un brutto momento, ma se ben usato rappresenta una chiave, un grimaldello, un aggeggio bulgaro, un momento irripetibile per rinnovare le istituzioni rappresentative, e “loro” lo sanno.

Montanelli, molti anni addietro in una sua “Stanza” (rubrica settimanale) della Domenica del Corriere, scriveva di non avere mai assistito all’assassinio della democrazia, ma al suo suicidio sì.

Dice: “Ma questo significa parlare alla pancia degli Italiani”. E che ci fa? Se per pancia s’intende anche stomaco va benissimo. Basta rammentare l’apologo di Menenio Agrippa. Si studiava in terza elementare e non si scordava più.

Eccolo.

«Una volta, le membra dell’uomo, constatando che lo stomaco se ne stava ozioso [ad attendere cibo], ruppero con lui gli accordi e cospirarono tra loro, decidendo che le mani non portassero cibo alla bocca, né che, portatolo, la bocca lo accettasse, né che i denti lo confezionassero a dovere. Ma mentre intendevano domare lo stomaco, a indebolirsi furono anche loro stesse, e il corpo intero giunse a deperimento estremo. Di qui apparve che l’ufficio dello stomaco non è quello di un pigro, ma che, una volta accolti, distribuisce i cibi per tutte le membra. E quindi tornarono in amicizia con lui. Così senato e popolo, come fossero un unico corpo, con la discordia periscono, con la concordia rimangono in salute».

Giuseppe Rinaldi

Nato in Piemonte cresciuto in Sicilia: Siracusa, Adrano, Giardini Naxos. Cavaliere della repubblica, pensionato, 46 anni di servizio presso l’Agenzia delle Entrate già Uffici Imposte Dirette. Ha scritto per Tribuna del Mezzogiorno; Gazzetta del Sud; Il secolo d’Italia; La Padania e qualche testata locale.

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