Categorie: Cultura

Il 25 aprile ucraino e il pensiero dell’Anpi

di Giovanni Cominelli – L’ANPI – Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – nata per “riunire in associazione tutti coloro che hanno partecipato con azione personale diretta, alla guerra partigiana contro il nazifascismo, per la liberazione d’Italia…” – come suona il paragrafo a) dell’art.2 del suo Statuto – si è trasformata da associazione di combattenti per la Resistenza in un’associazione di “pacifisti per la resa”. Così lapidariamente Arturo Parisi, già Ministro della Difesa del primo Governo Prodi. Il presidente dell’ANPI, le cui improvvide uscite filo-russe sono documentate già dal 2014, ha risposto a Parisi e ad altri, denunciando “un attacco stalinista”. 
Qual è, dunque, la cultura politica dell’ANPI di oggi? Richiesto in altro modo: quale idea di ordine mondiale e quale idea di democrazia liberale coltiva l’ANPI? 

Il “di oggi” ha senso, perché i suoi iscritti non sono più quelli del 1945, quando l’ANPI fu approvato quale Ente morale con D. L. n. 224 del 5 aprile 1945, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 61 del 22 maggio 1945. 
Il primo dato, eclatante e inevitabile, è quello della composizione biografica degli iscritti. Dei circa 120 mila attuali, sono, forse, alcune centinaia quelli che “hanno partecipato con azione personale diretta, alla guerra partigiana”. 
Ma le metamorfosi politico-culturali dal 1945 ad oggi sono più importanti di quelle biografiche.
Alcune sono avvenute già nel 1948. Il 15 aprile di quell’anno l’APC – Associazione dei Partigiani Cristiani -,  diretta da Enrico Mattei, uscì dall’ANPI e fondò la Federazione Italiana Volontari della Libertà – FIVL – presieduta dal Gen. Raffaele Cadorna. 


Il 9 gennaio 1949 fecero altrettanto le componenti socialiste e azioniste, costituendosi in Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane – FIAP – sotto la presidenza di Ferruccio Parri.
Così l’ANPI, di cui Arrigo Boldrini fu presidente dal 1947 al 2006, riproducendo al suo interno la frattura del 1948, diventò, da allora in avanti, espressione diretta del PCI. 
Dal PCI-ANPI il mondo era così descritto: da una parte gli USA, la NATO, le potenze democratiche europee quale polo capitalistico-imperialistico mondiale, dall’altra l’URSS, il Patto di Varsavia quale polo comunista di liberazione sociale e nazionale su scala mondiale. Da quale parte stare non c’erano dubbi per il PCI-ANPI. La libertà stava a Est.


Quanto alla democrazia, quella italiana era considerata incompleta, perché escludeva il PCI dal governo. Una democrazia autentica non era quella liberale dell’alternanza, ma quella consociativa. Perciò, l’ANPI, soprattutto dopo la strage di Piazza Fontana del 1969, agì come un movimento politico, che, nel nome della Resistenza e dello spirito del CLN, spingeva per l’ingresso del PCI nell’area del governo. Il compromesso storico era la teoria politica di quello sbocco, benché non mancassero i mugugni di quella parte di “partigianume” – è uno stigma stizzoso di Togliatti del 1948 – che pensava che la DC, in quanto filo-americana, fosse anche protettrice e complice dei neo-fascisti. Vedi luglio 1960, vedi Golpe Borghese!

La Resistenza “è rossa e non è democristiana” gridavano nelle piazze del 25 Aprile i giovani del ’68 insieme ai vecchi partigiani, con sprezzo assoluto della storia.
Così, quando Berlinguer si proclamò più al sicuro sotto l’ombrello della NATO, l’ANPI entrò in fibrillazione. Molti furono d’accordo con la denuncia cossuttiana di uno “strappo” della tradizione comunista.
Toccò, poi, a Craxi essere rappresentato con gli stivaloni neri, essendo fautore con il collega tedesco Schmidt degli euromissili, piazzati per rispondere agli SS20 sovietici. Neri per due ragioni: perché “amerikano” e perché teorico di una democrazia dell’alternanza, nella quale il PCI non godesse più dei vantaggi del potere di veto, che era l’altra faccia della “conventio ad excludendum”.

La “Grande riforma” era vissuta come una minaccia alla democrazia italiana. E quando il PCI, con Occhetto, avviò dopo il 1989 la sua incerta fuoriuscita dalla cultura comunista, l’ANPI vi rimase invece solidamente attaccato. Fuoriuscita: cioè piena accettazione della dimensione europea  (ancora nel 1979 il PCI aveva votato contro lo SME), adesione all’Internazionale socialista, sinistra che si candidava al governo. Certo il polo sovietico era scomparso, ma permaneva e si accentuava l’avversione agli USA, all’Unione europea, all’Occidente, considerati il punto di aggregazione di ogni possibile imperialismo.

In particolare, l’Unione europea si stagliava come articolazione tecno-finanziaria e ordo-liberista del Moloch capitalista-liberista. Toccò a Berlusconi il 25 aprile del 1994, appena uscito vincitore nelle elezioni del 27-28 marzo, diventare l’oggetto di tutti gli strali antifascisti possibili. In seguito a Bossi e alla Moratti. Il centro-destra era accusato di…fascismo.


E poiché non si vedeva e non si vede nel mondo, perché non c’è, un punto di riferimento alternativo a quello russo o cinese, se non quello occidentale, la visione geopolitica dell’ANPI, tra fine Novecento e Terzo millennio, è trascolorata in un pacifismo arcobaleno, nel quale si mischiano nostalgici del vecchio comunismo, aspiranti ad un nuovo comunismo, No-global, ecologisti passati dalla lotta di classe alla lotta per l’acqua – del tutto necessaria, occorre dire! – sovranisti e populisti di sinistra. Le cronache di questi giorni riportano le dichiarazioni del 2014 dell’attuale presidente Gianfranco Pagliarulo, del tutto favorevoli all’annessione russa della Crimea e all’intervento “a bassa intensità” nel Donbass, e la presa di posizione dell’ANPI, presieduto da Carlo Smuraglia, contro le riforme costituzionali previste dal referendum renziano del 2016. Dopo Craxi e Berlusconi toccava a Renzi il ruolo di minaccia per la democrazia. 
L’ultimo “caduta” cultural-politica riguarda la discussione sulle foibe, febbraio 2020. 


Secondo la defunta presidente dell’ANPI, Carla Nespolo, gli Italiani non furono infoibati in quanto Italiani, ma perché “erano fascisti, erano spie” come reazione alle violenze dell’occupazione fascista. L’affermazione vale, forse, per la prima fase delle foibe, non certo per la seconda, quando Tito puntava ad annettersi Trieste e praticò una feroce pulizia etnica contro gli Italiani come tali. 
Sulle posizioni del Presidente dell’ANPI sull’Ucraina è superfluo qui ritornare: Zelenski è un burattino di una guerra per procura, che fa il burattinaio del suo popolo. Putin ha fatto molto male, però però… Perciò, niente armi, solo opere di bene.

Alla fine di questo percorso che cosa è diventato l’ANPI? Un partito di sinistra radicale, che promuove e amministra la memoria della Resistenza del 1943-45 secondo proprie categorie interpretative. 
Una sopra tutte è largamente condivisa da quasi tutto il vecchio mondo comunista: quella della positiva rottura della Storia ad opera della Rivoluzione d’ottobre del 1917, che avrebbe irreversibilmente spezzato il sistema mondiale capitalistico e aperto la strada ai movimenti di liberazione sociale e nazionale. Il mito della rivoluzione bolscevica continua a comandare l’interpretazione del mondo presente. E questo è il nocciolo duro residuo del comunismo. Per sciogliere il quale, non bastano le dure repliche della Storia, a quanto pare.
Ma questa è un’altra storia…

Per gentile concessione dell’autore da santalessandro.org

Giovanni Cominelli

Giovanni Cominelli laureato in filosofia con Enzo Paci. Consigliere comunale a Milano nel 1980 per il Pdup, consigliere regionale dal 1981 al 1990 per il Pci. Dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Cdo dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Collabora a Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative sul Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009)

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