di Bruno Perazzolo – Inizio dalla provocazione. Era una questione che mi gironzolava per la testa da tempo. Mi chiedevo: “come mai il quorum vale solo quando sono i cittadini a decidere sulle leggi e non quando, invece, i cittadini vanno a votare per delegare a qualcun altro il potere di fare le leggi?”.
Poi, ad un incontro sul federalismo tenuto recentemente da Giuseppe Leoni, Alberto Fabris ha formulato, con tono di voce non privo di un certo carisma, esattamente lo stesso quesito. Illuminazione! Mi sono fatto coraggio. Forse l’interrogativo non era così balzano. Se anche altre autorevoli persone pensano, come me, che il quorum stia proprio a simboleggiare la minorità dei cittadini rispetto ai partiti, significa proprio che, mettendosi in quest’ottica, si possono capire un sacco di cose. Vengo al dunque.
In base alla “scarsa simpatia” da sempre normalmente riservata dalle forze politiche al referendum, si può ben comprenderne l’utilizzo che ne è stato fatto sino ad oggi per scopi che, con la democrazia diretta (il diritto dei cittadini di votare sulle leggi), hanno poco o nulla a che vedere. Per esempio, il referendum dell’8 – 9 giugno scorso.
Come avevo anticipato in questo articolo “Referendum, dubbi e dolori di un federalista”, La Nuova Padania, 31 maggio, era ampiamente prevedibile che l’esito sarebbe stato un clamoroso flop. Però, malgrado questo convincimento, “da federalista appassionato di democrazia diretta”, come sollecitato dalla nostra Costituzione all’art. 75, mi sono lo stesso recato alle urne per esprimere un giudizio sui quesiti referendari.
Sapevo che il mio voto sarebbe stato distorto e strumentalizzato, ma le ragioni civiche hanno, alla fine, prevalso e purtroppo, con le ragioni civiche, anche la prognosi che avevo formulato si è avverata. Di lì a qualche giorno, su giornali e TV, ho scoperto di essere stato annoverato tra i 14 milioni di elettori pronti a dare sostegno alla ripartenza dell’opposizione di centro sinistra. Le cose non sono andate meglio a chi, alle urne, non si è mai sognato di recarsi. La sua astensione lo ha fatto includere di default tra quel 70 % di elettori che, restando a casa, avrebbe espresso un sostegno al Governo Meloni o giù di lì.
Questi scarni argomenti credo siano più che sufficienti per comprendere la triste realtà che caratterizza l’istituto del referendum nel nostro paese. A quanto ne so, negli ultimi trent’anni il quorum è stato conseguito solo una volta, nel 2011, sul quesito della gestione pubblica dell’acqua.
Votò il 54,8 % degli aventi diritto e i “sì all’abrogazione” vinsero ampiamente con il 95,35 %. Sennonchè, persino in questo caso, malgrado la valanga di consensi a favore di una “gestione pubblica dell’acqua sottratta al profitto”, si fatica a dire che la normativa successiva, deliberata dagli organi rappresentativi (Parlamento, Consigli regionali ecc.), abbia rispettato l’indicazione popolare.
Ad ogni modo, al di là del caso specifico, dal 1997 ad oggi mi risulta siano stati celebrati solo 10 referendum abrogativi dei quali 9 non hanno raggiunto il quorum. Un bilancio ben misero alla luce del quale, se per davvero, tra coloro che, estemporaneamente (tradotto: quando fa comodo), si scoprono seguaci della “democrazia diretta” ci fosse autentico interesse a dare più voce ai cittadini, dovrebbe prevalere, anziché la compulsiva insistenza sulla promozione di ulteriori quesiti referendari, la messa in discussione dello stesso referendum abrogativo così come previsto dall’art. 75 della Costituzione.
Però, onestamente, devo anche dire che dubito fortemente che ciò possa accadere. Dopo l’ennesimo flop, puntualmente, si accende la discussione sulla necessaria riforma del referendum abrogativo, volta ad impedirne i sostanziali fallimenti, l’uso improprio e il conseguente spreco di danaro pubblico. Altrettanto puntualmente, dopo il tradizionale polverone di ordinarie balordaggini, la discussione si chiude in attesa del prossimo “nulla di fatto”.
In questo panorama piuttosto deprimente, va detto che, circa un decennio fa, un’eccezione c’è stata. Penso, in particolare, ai Cinque Stelle di Grillo e Casaleggio. Per quanto il loro modo di considerare la democrazia diretta, il referendum e l’utilizzo del digitale nel contesto di altre idee per me insostenibili, depotenziasse i loro argomenti, credo vada riconosciuto a questo movimento il grande merito di avere aperto, nel tratto iniziale della sua storia, un grande confronto pubblico sulla crisi della democrazia rappresentativa e sulla conseguente urgenza di pensare a forme di democrazia almeno in parte sostitutive e/o complementari quali, appunto, la democrazia diretta e partecipata.
Poiché temo che questa “fase storica dei Cinque Stelle”, che pure li ha portati, a suo tempo, a riscuotere grande consenso e grande fiducia, sia stata sostanzialmente archiviata dalla nuova leadership di questo partito, mi domando: “non è forse il caso che questa bandiera debba essere rialzata proprio da noi, convintamente democratici, ma, pure, convintamente consapevoli che la democrazia non può reggersi sulla sola gamba della delega. Come direbbe Aristotele, fondamentale, per un “il buon governo della polis” è quella diffusa partecipazione dei cittadini alla politica che solo il federalismo, l’autonomia e il decentramento possono assicurare.
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