di Cassandra – Sembrano passati anni luce quando, in tempo ancora di vacche grasse, ma a delocalizzazione già inoltrata, l’allora segretario provinciale della Cgil di Treviso Paolino Barbiero, proponeva di mandare via gli immigrati che restavano senza lavoro: «Gli industriali mettano i soldi per incentivare il rimpatrio degli operai extracomunitari». Detta così, in una terra dichiaratamente per anni leghista, sembrava una dichiarazione di matrimonio col Carroccio.
Ma il problema, senza le bandiere dell’ideologia e degli schieramenti, c’era. A Treviso, quando il Nordest era ancora un cavallo da corsa, a metà anni 2000 c’erano state 236 manifestazioni di stampo politico-sindacale. Le più famose avevano interessato la Zoppas, che aveva asciato a casa centinaia di operai per andare a produrre nell’Europa dell’Est e alla De Longhi, che aveva annunciato il licenziamento di 650 dipendenti per andare a produrre il “pinguino” in Cina. Quasi metà di questi esuberi erano però immigrati, provenienti da 19 nazioni diverse. «Un lavoratore straniero che finisce in mobilità o in cassa integrazione – precisava Barbiero – è un costo per lo Stato».
Il ragionamento successivo era che queste aziende, che avevano chiesto la presenza di manodopera straniera perché necessaria, poi scoprivano che delocalizzando la produzione, magari in Cina o in qualche altro paese asiatico, il costo si sarebbe ridotto ancora di più. Ergo, tutti in Cina. Mentre in Italia restavano, e restano, capannoni vuoti e disoccupati. Non solo italiani, ma anche extracomunitari.
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