Il Covid si è diffuso col metodo Costantinopoli: chi doveva vigilare dormiva

24 Aprile 2020
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costantinopoli

C’è un breve saggio del nostro collaboratore e amico, Giuseppe Reguzzoni, che ripercorre la caduta di Costantinopoli. Cosa ha in comune la vicenda con il Covid è presto detto. Il nemico entrò dalla porta sguarnita della città fortificata.

In altre parole, la capitale d’oriente cadde per sottovalutazione e per negligenza. Come non vedere in questa parabola storica quanto è accaduto al Nord con il contagio odierno? Quanti passaggi pedonali sono stati lasciati incustoditi con la presunzione di essere al riparo dall’attacco mortale?

Sono diversi momenti fatali quelli che consentono all’imprevedibile di cambiare il corso della storia. Se non è bastata Costantinopoli, la caduta di un impero, a far imparare la lezione, possiamo immaginare che i piccoli uomini alla guida di grandi potenze economiche europee e del nostro Paese avessero capito che governare è altra cosa dall’occupare troni e poltrone? Buona lettura con il magistrale pezzo del nostro professore (redazione)

di GIUSEPPE REGUZZONI – C’è un’opera bellissima di Stefan Zweig, ancora troppo poco nota, il cui titolo in traduzione italiana – «Momenti fatali» – non rende sino in fondo quello originale, «Sternstunden der Menschheit», momenti “stellari” dell’umanità. Quattordici scene, quattordici racconti brevi, che narrano, ciascuno, di un solo momento, che ha, in qualche modo, cambiato la storia. Ma non è solo l’interesse storico a governare la narrazione. Ognuna di queste scene è la parabola di qualcosa che potrebbe accadere ancor oggi, una sorta di simbolo esistenziale di dimensioni recondite dell’umano, del rapporto tra la storia dei singoli e dei popoli e l’oscurità, tenebrosa, del potere e della brama di esso.

La storia raramente è magistra vitae, maestra di vita, men che meno lo è per la politica, ma, forse, è ancora utile cercare di riflettere sui grandi crepacci che ne percorrono il fluire incessante e in cui, in un attimo, possono precipitare e perire le speranze di un’intera generazione. «Momenti fatali», appunto, che ci possono insegnare molto, anche sul piano politico, prima che la resistenza dell’ultima opposizione al potere assoluto delle Logge sia vinta e travolta. Questo è il Paese della democrazia a comando, delle stragi di Stato ancora inesplorate, dei salotti buoni che decidono per noi. Questo è il Paese che, oggi, ha bisogno di un’opposizione forte e costruttiva. Perché ci sia democrazia, infatti, bisogna che ci sia opposizione. Perché ci sia opposizione, bisogna che ci sia un progetto alternativo. Tempi duri, questi, in cui i poteri forti si sentono così sicuri da sferrare l’ultimo attacco. Bisogna però fare attenzione alle mosse del Nemico, alla sua slealtà intrinseca, ma anche alle negligenze, anche quelle apparentemente più piccole e trascurabili. Il prezzo sarebbe altissimo.

Non ce ne vorrà, dunque, una grande scrittore come è stato Stefan Zweig, se si vorrà rileggere uno dei «momenti fatali» come un emblema di questo scontro. Tra le scene più drammatiche del suo libro c’è, infatti, quella che narra la caduta di Costantinopoli, la capitale dell’Impero d’Oriente, per secoli baluardo della Cristianità contro l’invasione islamica. La sua storia è l’emblema di una resistenza disperata, dove non si possono lasciare spazi alle divisioni e dove la negligenza è un pericolo mortale.
È il 29 maggio 1453 e da tre mesi ottomila uomini in armi, bizantini, veneziani, genovesi, resistono a un’armata di centocinquantamila turchi. Le possenti cerchie murarie della città, edificate nei secoli da Costantino il Grande, Teodosio, Giustiniano e dai loro successori reggono i possenti colpi del grande cannone capace di sparare otto massi di granito al giorno, pesanti mezza tonnellata.

Di giorno il cannone spara, di notte la popolazione ripara e tampona le ferite dell’antica capitale cristiana. Centocinquanta navi turche chiudono il mare intorno alla città. Dall’Europa, divisa e litigiosa, non arrivano che promesse, tranne un paio di navi inviate dal Papa e da Genova e Venezia. Le città marinare promettono, ma non danno, e intanto trattano col Sultano. Pochi credono nella vittoria. La sera del 22 maggio Maometto II, il coltissimo Sultano che godeva a impalare e torturare a morte, ordina l’attacco finale. Promette alle sue truppe che dopo la caduta della Città avranno tre giorni di assoluto arbitrio, per saccheggiare, violentare, scannare, massacrare … A Costantinopoli, intanto, viene celebrata l’ultima Messa nell’antica basilica di Santa Sofia, per la prima e unica volta Greci e Latini, Bizantini e Veneziani, tutti insieme, in ginocchio nella più bella chiesa del mondo, a implorare la grazia di Dio, che non verrà.

All’una di notte il Sultano ordina di srotolare gli stendardi con la spada del Profeta e centomila uomini si avventano sulle mura. I primi sono i bascibozuk, soldati inesperti, che combattono seminudi, mandati allo sbaraglio e a morte quasi certa da Maometto II, che se ne serve come un ariete. Incalzati dall’esercito regolare, costoro si precipitano verso le mura, si arrampicano sugli spalti, ne vengono buttati giù. Maometto ha fatto bene i suoi calcoli. Le truppe sulle lunghissime mura sono stanche. Gli assediati, coperti di pesanti armature devono correre in continuazione per respingere gli attacchi incessanti. Dopo due ore di battaglia, quando il cielo comincia a schiarirsi, subentra la seconda ondata, i soldati dell’Anatolia, ben addestrati e ben equipaggiati. Eppure Costantinopoli resiste ancora.

Il Sultano è costretto a lanciare l’ultima riserva, i giannizzeri, soldati scelti, giovani sottratti alle famiglie cristiane in tenerissima età ed educati all’obbedienza assoluta. Le campane di Costantinopoli suonano, chiedendo a chiunque sia in grado di farlo di correre sulle mura. Ma la sorte è avversa, e una pietra colpisce in pieno il coraggioso comandante genovese, Giustiniani, che deve essere trasportato su una nave. La sua assenza fa vacillare il coraggio dei soldati, ma, subito, accorre l’imperatore Costantino in persona e una volta di più si riescono a far cadere le scale dell’assalto. Al numero si oppone la disperazione e la disperazione diventa ardimento estremo contro la furia del nemico. Ma è un tragico incidente, uno di quei momenti fatali che cambiano la storia, a determinare di colpo la sorte di Bisanzio.

È accaduto qualcosa di incredibile. Alcuni Turchi sono riusciti a passare attraverso una delle brecce aperte lungo la cinta più esterna delle mura. Si aggirano tra il primo e il secondo bastione, quando si accorgono che una delle porte più piccole delle mura cittadine, la Kerkaporta, per un’inconcepibile negligenza, è rimasta aperta. Si tratta solo di una postierla, che in tempo di pace permette il passaggio ai pedoni quando le grandi porte sono chiuse.

I giannizzeri rimangono stupefatti nel trovare quel varco aperto, chiamano rinforzi ed entrano, sorprendendo gli ignari difensori. Un’intera truppa, al grido di «Allah il Allah!» si riversa nella città, mentre all’interno risuona quel lamento funesto che è più esiziale di qualunque cannone: «La città è presa!» I mercenari, sentendosi traditi, corrono al porto a cercare rifugio. Costantino, l’ultimo imperatore, spalleggiato da pochissimi fedeli, si avventa contro gli invasori. Cade, guerriero anonimo, in mezzo alla mischia, fedele sino all’ultimo alla sua missione. Lo riconosceranno solo l’indomani, grazie a un paio di scarpe di porpora ornate con un’aquila d’oro. Intanto migliaia di Ottomani si scatenano sulla Città, stanano dalle chiese gli infelici che vi hanno trovato rifugio, violentano le donne e ragazze, trucidano come esseri inutili gli infanti e i vecchi, legano come bestiame gli uomini ancora in grado di servire come forza lavoro. Mentre intorno a lui scorrono fiumi di sangue, Maometto II entra a cavallo nella Basilica di Hagia Sophia, Santa Sofia, cuore dell’Ortodossia e del Cristianesimo d’Oriente. Inebriato dall’odore del sangue e della morte, il Sultano si stende sul tappeto che gli è posto dinanzi e benedice Allah, consacrando quel luogo all’Islam.

Gli altari vengono distrutti, sugli splendidi mosaici si passa una mano di calcina e l’altissima croce che da mille anni sembra abbracciare il mondo si rovescia a terra nella polvere, sostituita dalla Mezza Luna. Il clangore rimbomba all’interno della chiesa e si ripercuote al di là delle mura, facendo tremare l’intero Occidente, sino ad allora rimasto indifferente. Qualche decennio e gli interi Balcani saranno occupati, con le armate turche alle porte di Venezia e di Vienna.

 Per gentile concessione dell’autore

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