di Giuseppe Rinaldi – L’idea stessa di scendere alla stazione di Porta Nuova a Torino da un “Freccia Rossa” e trovare davanti a via Sacchi, dopo, l’ingresso del “Diurno”, i lustrascarpe, fa sorridere. Di nostalgia forse, ma fa sorridere.
Eppure, sino agli anni ’80 del secolo scorso, quest’attività era ambita giacché la “pagnotta” quotidiana si portava abbondantemente a casa, attraverso tanta manualità, qualche “segreto” del mestiere, molti disagi e non eccessiva fatica, in ogni caso inferiore a quella agricola, nelle valli cuneesi, dalla quale i futuri lustrascarpe erano fuggiti. Non sempre la terra era grata a chi la lavorava e, allora, si cercavano altre strade. Per esempio quelle della via del sale intesa come commercio di acciughe, o quella di cui c’è anche un museo a Elva (Cuneo) che rammenta il mestiere di “caviè”, vale a dire del cacciatore di capelli. Entrambi lavori che richiedevano buone gambe e specie per gli acciugai anche buone braccia per tirare i carretti che spesso accompagnavano la vita dei venditori ambulanti.
Quello del lustrascarpe era uno dei tanti che ci s’ingegnava a svolgere. La sua diffusione era strettamente legata allo stato delle strade, meno pulite di oggi, anche nelle città. Spesso l’attività era tramandata da padre in figlio, a dimostrazione che non era un mestiere da “buttare via”. Oggi, con la tendenza a rimodulare in direzione più eufemistica i nomi di molte attività, non li chiameremmo più “lustrascarpe”, termine che sa di umiltà e sottomissione, bensì “operatori ambulanti delle calzature”. In ogni caso, chiamateli come volete, ma fatto sta che il mestiere permetteva una vita onesta e dignitosa, soprattutto visti quei tempi.
Non va dimenticato, infatti, che questo tipo di lavoro non nasce nel 1946 col film di De Sica “Sciuscià”, ma viene da lontano. Il regista ha unicamente tratteggiato una piaga del sud del dopoguerra, un’alternativa all’ accattonaggio e dove i protagonisti erano ragazzi laceri, sporchi, affamati e privi di qualsiasi punto di riferimento educativo. Il termine stesso è così illustrato dall’Accademia della Crusca riportando una analisi di Alberto Menarini: «La parola sciuscià, così pronunciata a Napoli, Roma ecc., riflette l’americano shoeshine, il quale meglio si riconosce nella forma in cui essa era da principio diffusa a Firenze e altrove: sciusciài. Ma poiché furono i giornali di Roma i primi a denunciare la nuova piaga, è stato nella forma sciuscià che la voce si è rapidamente imposta attraverso tutta la penisola, diventando presto sinonimo di “giovane vagabondo, accattone” e persino di “ladro”: abbiamo letto in un giornale dell’aprile 1947: Poteva diventare sciuscià, forse diventerà marinaio. Oggi, e specialmente dopo l’interesse suscitato dal film omonimo di Vittorio De Sica (1946), sciuscià è venuto a identificarsi, per molti italiani, col tradizionale scugnizzo, sostituendolo nell’uso che se ne fa fuori di Napoli».
Tutt’altra cosa gli “sciuscià” del nord, questi erano “lustrascarpe”.
Innanzi tutto, come accennato, era gente che sceglieva questo mestiere in alternativa, di solito, a quello dei campi. Poi, non erano stracciati e lerci perché la loro postazione di lavoro e il loro abbigliamento era imperativo fossero decorosi, in special modo per chi lavorava in grandi città come la “regal Torino” cui un po’ di alterigia non ha fatto mai difetto (un tempo, ora non ne è rimasta manco l’ombra).
Per esempio qui, nella stazione di Porta Nuova, gli operatori della scarpa erano usi portare un berretto rosso, la placca col numero della licenza rilasciata dagli uffici comunale in bella mostra e i loro modi erano urbani e compiti. Potrebbe apparire un “mestiere” del passato, sepolto ovunque inesorabilmente dalla polvere del tempo, ma non è così, o forse lo è unicamente per le città del nord Italia. A Palermo, invece e tanto per fare un esempio, nel 2017, il comune ha pubblicato un bando di concorso per quindici posti da lustrascarpe da destinare in una decina di vie del capoluogo siciliano. Sono stati settanta i candidati tra i quali molti diplomati ed alcuni laureati, provenienti anche da altre regioni. Il Giornale di Sicilia, nell’edizione del 11 giugno dello stesso anno, darà poi notizia dell’inizio dell’attività per i lavoratori ammessi, e Palermo Today specificherà: sono tre donne e dodici uomini.
Tornando al passato, molto importante era la posizione ove mettere su bottega: le stazioni erano punti privilegiati, poi gli alberghi e le chiese, ma anche le piazze e gli angoli sotto i portici di vie molto frequentate.
Gli “sciuscià” torinesi provenivano quasi tutti dalla parte occitana del Piemonte, la Val Grana (Cuneo) e in particolare da Castelmagno, luogo tra l’altro di ottimi formaggi. Qui, presso il Museo Etnico del Colletto, è custodita l’ultima cassetta con i lucidi e le cere per le scarpe dell’ultimo paesano emigrato a Torino per svolgere il mestiere.
Oggi tutto è cambiato, e anche la stazione Porta nuova di Torino non fa eccezione. Non ci sono più i lustrascarpe, probabilmente non c’è più il “diurno”, tanto comodo per rinfrescarsi dopo i lunghi viaggi dal sud e sicuramente non c’è più il modello del transatlantico Conte Biancamano che faceva bella mostra di se nel grande atrio della stazione. Adesso la struttura è diventata un grande centro commerciale a ridosso della strada ferrata, ma guai a dire che si preferiva la vecchia, si è presi per trogloditi.
Ci è stato raccontato di un viaggiatore il quale per decenni aveva preferito l’auto ai viaggi in treno, quando è stato punto da vaghezza di riprendere “una tantum” un convoglio ferroviario, entrando a Porta Nuova non si è più raccapezzato. Tra lo scintillio dei lumi dei negozi ed il ronzio dei neon, non riusciva ad individuare la storica biglietteria. Pensò: “Tutti questi saranno negozi polifunzionali, venderanno anche biglietti”. E fu così che entrò in uno dei tanti, uscendo poco dopo, non col biglietto per Messina ma con cinque chili di Pavesini in valigia.