di Giovanni Cominelli – Dei quattro principali partiti del sistema politico italiano, due versano in una crisi profonda. Il M5S si sta decomponendo con la stessa rapidità con cui si era agglutinato. Il PD sta consumando una lunga storia di idee, di persone, di assetti organizzativi, che sono il lascito del vecchio PCI. Così, al momento, la politica di questi due partiti sembra incapace di sollevarsi oltre l’orizzonte della lotta politica quotidiana per i posti di potere/governo. A proposito dei quali, sia detto tra parentesi, solo “i pusilli” si scandalizzano del fatto che essi siano l’oggetto del contendere. Un lessico inerzialmente qualunquista e populista, usato furbescamente a turno da chi sta al governo e da chi sta all’opposizione, accusa i partiti altrui di lottare ferocemente tra loro e al loro interno per “le poltrone”.
Ma si dovrebbe sapere che i partiti si sono costituiti e sono periodicamente votati esattamente per questo: per realizzare delle idee circa il presente e il futuro del Paese. E lo si fa occupando posti di potere e di governo.
Ma, per uscire dalla parentesi, è anche evidente che senza una cultura politica profonda e coerente – chiamiamola pure “identità”, il mal du siècle – la lotta per i posti degenera in scontri al buio nei corridoi. E’ ciò che sta avvenendo nel PCI, pardon! nel PD.
Zingaretti è solo il Cireneo del calvario di consunzione di un’identità ormai consumata.
Ogni volta che un movimento politico o religioso sente di perdere la presa sul mondo e di non essere più in grado di interpretarlo o di cambiarlo, vi si accende all’interno un dibattito ultimativo sulla sua “rifondazione”. Che assume da subito la forma del bivio davanti a due sentieri: quello di sinistra, del “ritorno alle origini”; quello di destra, dell’ “innovazione radicale”. Zingaretti, Bettini, Orlando e, dietro di loro, D’Alema e Bersani sono decisamente avviati sul sentiero sinistro-originalista: per rifondarsi occorre tornare alle origini.
Il fondamentalismo e l’originalismo sono da sempre l’illusione ricorrente di movimenti politici e religiosi che non riescono più a reggere il confronto con i cambiamenti del presente. L’identità, nella narrazione fondamentalista, non è in crisi: è solo uno splendido affresco ricoperto dalla polvere dei decenni e dal fumo di troppe candele. Basterà ripulire e tornerà lo splendore dei colori come è accaduto alla volta della Cappella Sistina.
Questa versione consente ad un gruppo dirigente che gestisce da anni una tranquilla decadenza di restare sempre al proprio posto, passando da liquidatore a rifondatore. Il guaio è che, mentre ci si contende l’interpretazione autentica dell’identità originaria, il mondo “là fuori” segue fatalmente la propria orbita e ruota imperturbabile sul proprio asse.
Il fatto è che “sinistra” oggi vuol dire qualcosa di assai diverso da ciò che significava ieri. I concetti della politica non sono come quelli della matematica. Il contenuto noetico delle categorie politiche è dato dal percorso storico che lo ha costituito.
Prendiamo il lemma “lavoratori”. Da sempre è una categoria-chiave teorica del movimento operaio socialista, laburista, comunista e sindacale. I lavoratori sono molto di più che una classe sociale, sono il soggetto storico-fattuale di un cambiamento sociale rivoluzionario, accada esso per via democratica o per vie più spicce. Ma cosa deve pensare uno di sinistra, quando sente Salvini parlare a nome dei lavoratori? Che mente per la pelle? Peccato che prenda, come del resto è accaduto a Trump, un sacco di voti proprio dai lavoratori!
Pertanto, per rispondere alla domanda di Gaber: “cos’è la destra/cos’è la sinistra?”, occorre fare i conti con lo scivolamento di significato che le suddette categorie hanno subito nel brusco scontro delle placche tettoniche della civiltà moderna. Senza dimenticare l’ammonimento di F. Braudel, che “il nuovo avanza sempre con i vestiti del vecchio”. Ma, anche, che il vecchio a volte si traveste del nuovo.
“Sinistra” nel corso dei secoli ha sempre significato lotta per l’avanzata sulla scena della storia di nuove forze produttive e di nuovi protagonisti sociali, che ne erano portatori. Perciò era lotta contro i ceti sociali che impedivano la comparsa sulla scena. Sinistra sono le forze del capitalismo commerciale e, poi, produttivo/industriale – cioè la borghesia – contro nobili e clero.
Sinistra è la borghesia delle libertà, “liberale” per l’appunto. La fondazione di questa sinistra avviene ufficialmente con i Dibattiti del New Modell Army di Oliver Cromwell, che si svolgono nella chiesetta di Putney tra il 28 ottobre e l’11 novembre 1647. Re Carlo I ci perse la testa, letteralmente, un paio d’anni dopo.
Quella sinistra liberale provoca la Gloriosa Rivoluzione inglese nel 1689, poi l’Illuminismo, poi la Rivoluzione americana, poi la Rivoluzione francese, poi Napoleone, poi i moti liberali della prima metà dell’Ottocento. In questa sua marcia sociale e culturale la borghesia ha prodotto il capitalismo industriale – di cui Marx tesse gli elogi più sperticati – e una nuova forza sociale: il proletariato. Perciò, a partire dal 1848 viene spinta a destra da una nuova sinistra, che rimprovera a quella vecchia di predicare benissimo i propri principi, ma di non praticarli.
Marx osserverà che la “liberté” dei borghesi consiste per i proletari nella libertà di morire sotto i ponti. Il Manifesto del Partito comunista è l’atto di fondazione della nuova sinistra del proletariato. Benché divisa lungo i decenni tra sinistra social-democratica e sinistra comunista, ha come base sociale comune il proletariato come forza dell’avvenire. La cui caratteristica storica è che si batte non solo per la propria liberazione dall’oppressione, ma per un nuovo sistema di produzione che sottragga ad una singola classe sociale il controllo proprietario delle forze produttive.
L’esito di quella vicenda è noto. Oggi, la sinistra ha perduto l’illusione di poter sostituire il modo di produzione capitalistico con quello socialista – che si è rivelato nelle sue versioni di successo solo un feroce capitalismo di Stato – ed è ripiegata sulla distribuzione della ricchezza, sulle problematiche ecologiche – nell’illusione di penetrare per questa via nella cittadella capitalistica – e sui “diritti umani”.
Dunque, dopo la sinistra borghese e dopo la sinistra proletaria, si apre una terza fase della sinistra? Forse…
“Sinistra/destra” non sono, infatti, categorie eterne dello spirito. Sono un sottoprodotto particolare di quattrocento anni di storia sociale e intellettuale dell’Occidente, che è solo una parte della storia presente dell’umanità. Con una differenza: esistere a destra è più facile, basta conservare. Esistere a sinistra è più impegnativo: occorre innovare.
Con un piccolo corollario: se la sinistra diviene conservatrice, la destra le ruba il mestiere e il posto. Se la sinistra perde i voti dei lavoratori, non è perché li ha abbandonati, ma perché ne è stata abbandonata: non ha mantenuto la promessa di fare di questa classe sociale la forza-guida dello sviluppo economico e produttivo. E’ il capitale la forza-guida.
Quel che è certo è che la strada della rifondazione e del ritorno alle origini – magari sostituendo alla categoria di “classe operaia” quella più generica di “lavoratori” o di “popolo” o di “poveri” o di “ultimi” – sta finendo contro un muro. Il “popolo” di Bettini, senza il nucleo d’acciaio della classe operaia, è solo un magma ribollente e instabile di interessi particolari, magari fortemente sindacalizzati, la cui rappresentanza politica può essere fornita gratis anche dalla Meloni e da Salvini.
Resta l’altra strada: quella dell’invenzione politica e culturale di una nuova sinistra. Strada impegnativa, che si può incominciare a percorrere/costruire, solo se si vedano persone e gruppi sociali protagonisti della civilizzazione, del progresso tecnico-scientifico e intellettuale. Dove stanno oggi le forze di liberazione sociale e di “fioritura umana”? Dove l’intelligenza produttiva? Chi produce ricchezza e benessere? Chi genera civilizzazione? La rappresentanza di questi settori sociali è sempre stata la base storica dell’esistenza della sinistra.
In ogni caso, la risposta a queste domande è la prima condizione per soddisfare la pretesa di esistere.
Per rispondervi, bisogna cominciare a porsele, occorre fornirsi di sensori di ricerca e di auscultazione della società, dell’economia, del mondo reale: “a non farsi domande, non si impara nulla”. Se la politica è populisticamente ridotta a comunicazione, tweet, like, post, a fini di consenso emozionale immediato, allora inevitabilmente si trasforma in lotta aspra e sterile di correnti di partito. A futuro zero.
Per gentile concessione dell’autore da Santalessandro.org
Giovanni Cominelli laureato in filosofia con Enzo Paci. Consigliere comunale a Milano nel 1980 per il Pdup, consigliere regionale dal 1981 al 1990 per il Pci. Dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Cdo dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Collabora a Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative sul Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009)