di Giovanni Cominelli – Il Covid-19 ha illuminato crudelmente ogni ruga, ogni macchia, ogni neo del nostro Paese. L’assetto politico, istituzionale e amministrativo italiano costruito nei 160 anni precedenti, non è più in grado di accompagnarci dentro il nuovo secolo.
Prendiamo le Regioni o, per peggio dire, l’anarchia regional/feudale nella gestione della pandemia. Essa è il prodotto di un’ambiguità costituzionale, che il Titolo V ha ulteriormente aggravato, dilatando enormemente il campo della legislazione concorrente. La sconfitta del referendum del 2016 che proponeva anche di istituire una Camera delle Regioni ha lasciato la sola Conferenza Stato-Regioni, fuori da ogni controllo del Parlamento e sostenuta su una fragile rete pattizia politico-partitica.
Dopo cinquant’anni si può legittimamente tracciare oggi un bilancio realistico. Il testo del Titolo V è nato, come ogni altro articolo della Costituzione da un compromesso tra varie impostazioni ideologiche che venivano da lontano: il federalismo azionista-repubblicano di Oliviero Zuccarini, di Giovanni Conti, di Emilio Lussu, risalente a Carlo Cattaneo, l’autonomismo comunale e regionalista di don Sturzo, il centralismo liberale di Roberto Lucifero, contrario alla dislocazione cantonale.
Esclusa quasi fin dall’inizio l’opzione federalista di Lussu, prevalse il regionalismo sturziano di Tupini e Stefano Jacini. Il nonno omonimo aveva proposto nel 1870 una forma di regionalismo, nello scritto “Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia dopo il 1866. Lettera agli elettori di Terni del loro deputato dimissionario contro il centralismo piemontese”, denunciando «l’esagerazione dell’unitarismo» quale base del malcontento e delle «odierne violenze», quelle del cosiddetto «brigantaggio». Il regionalismo democristiano si fermò sulla soglia del federalismo, mentre il Partito comunista italiano (Pci), rappresentato principalmente da Renzo Laconi, si presentava fortemente centralista.
La Democrazia cristiana (Dc) ripropose nel 1946-48 il programma del Partito popolare del 1919, che contrapponeva «ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale (…) l’autonomia comunale, la riforma degli Enti Provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali». Il Partito comunista italiano, al contrario, puntava su uno Stato forte centralizzato, non perché volesse fare come in Russia – Togliatti lo aveva escluso – ma certo perché veniva più facile costruire da Roma la cosiddetta «democrazia progressiva», cugina delle nascenti «democrazie popolari».
Dopo le elezioni del 1948, le parti si invertirono: la Democrazia cristiana, temendo la costituzione di Repubbliche rosse-cuscinetto tra Nord e Centro-Sud, prese la strada della dilazione, mentre il Pci diventò regionalista. Si arrivò, comunque, all’istituzione delle Regioni solo nel 1970.
Ne è uscito un regionalismo che non è né carne né pesce: non è federalista, tale da imputare alla Regione responsabilità fiscali precise e politiche di spesa responsabili. Paga lo Stato, a pie’ di lista. Le linee di spesa non hanno criteri, se non quello della “spesa storica”, costruita lungo i decenni per rapporti di forza e di favore politico-partitici.
E non si sono ancora visti i criteri base dei livelli essenziali di prestazioni. Le Regioni non hanno semplificato o reso più efficiente l’Amministrazione statale. L’hanno duplicata, moltiplicandosi per migliaia di dipendenti regionali e per centinaia di società partecipate regionali. In Sicilia occupano circa 7.000 dipendenti. Un fiume enorme di stipendi, contributo essenziale alla “Società signorile di massa”, dalla definizione di Luca Ricolfi.
Partecipate efficienti? Rivolgersi per informazioni ad ARIA –-fritta?! – in Lombardia, 600 dipendenti, ottusamente incapace di prenotare i vaccinandi. Quanti consulenti? Quanti e più, per bypassare l’incompetenza accumulata e stipendiata degli apparati.
Se poi il regionalismo doveva rimediare alla frattura storica Nord-Sud, Piero Bassetti ha già fatto notare, commemorando ufficialmente il cinquantenario della Regione Lombardia, di cui lui è stato promotore e primo Presidente, che se nel 1870 – fatto 100 il reddito pro-capite nazionale – Il Nord era livello 110 e il Sud a 90, oggi il Nord è al 120, il Sud a 65.
Le Regioni hanno aggravato la disunione e la frammentazione e hanno rafforzato la spinta corporativa che sale dai territori. Emilio Lussu, intervenendo nella discussione dell’Assemblea costituente, osservò che il regionalismo, per come si andava delineando, apparteneva alla famiglia del federalismo «così come i gatti appartenevano alla stessa famiglia dei leoni».
Chi ha guadagnato da questo regionalismo doroteo, ai limiti del centralismo e del federalismo, sono stati i partiti, che hanno visto moltiplicarsi il personale politico, le carriere, gli stipendi, e perciò il finanziamento: più di un migliaio di consiglieri regionali, più di duecento assessori, 20 sedicenti “governatori”.
E questo spiega la renitenza a rimettere in questione la Costituzione del ’48 e il Titolo V del 2001. Attraverso la moltiplicazione delle istituzioni, la politica partitica si è gonfiata a dismisura, come la rana di Esopo. Delle Regioni a statuto speciale l’unica che ha giustificazione storico-politica è il Trentino-Alto Adige, che la storia imporrebbe di rinominare meno fascisticamente Trentino-Sud Tirolo. Tornare, dunque, allo Statuto albertino, a Carlo Farini e a Bettino Ricasoli, come spesso si invoca soprattutto dalla classe dirigente meridionale, cui non è bastata la lezione tragica del centralismo piemontese-borbonico?
Occorre andare in una direzione liberale e federalista. Non riprenderò qui le proposte ben note di riduzione del numero esorbitante delle Regioni e del riassetto federale dei livelli istituzionali, a partire dalla titolarità fiscale dei Comuni, delle Regioni, dello Stato, nella prospettiva di unità sovracomunali e metropolitane più vaste, di un’integrazione economica orizzontale tra Regioni confinanti al di qua e al di là dei monti e dei mari, nell’orizzonte necessario degli Stati Uniti d’Europa.
Le proposte abbondano, ma resta drammatica l’inerzia della classe dirigente politica, trasformatasi in corporazione tra le corporazioni. Una corporazione “estrattiva”. Perciò non facilmente riformabile dall’interno.
Per gentile concessione dell’autore da linkiesta.it
Giovanni Cominelli
Giovanni Cominelli laureato in filosofia con Enzo Paci. Consigliere comunale a Milano nel 1980 per il Pdup, consigliere regionale dal 1981 al 1990 per il Pci. Dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Cdo dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Collabora a Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative sul Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009)