di Stefania Piazzo – Era il 23 novembre del 1980 ed ero nella mia cameretta a studiare. Facevo il terzo anno di istituto tecnico agrario allo Stanga di Cremona. Era una giornata bigia, tipicamente padana, decisamente umida e lombarda. La mia camera confinava con un piccolo sgabuzzino, una cambusa casalinga dove tutto veniva riposto in ordine. Nella tarda serata, un improvviso rumore mi sorprese e spaventò, tanto da pensare alla presenza di estranei in casa. Sentìì cadere a terra tutto quanto era negli scaffali della piccola dispensa, un rumore forte di scatolette, pentole, attrezzi, utensili, tutto precipitato a terra come se mani umane avessero scosso fino a far cadere quanto era stato messo sui ripiani.
Uscìì dalla camera, capii subito che si era trattato di una scossa di un terremoto e assieme a tutti gli abitanti dell’isolato, corsi in strada. Non esisteva internet, non c’erano i telefonini. La domanda era dove fosse accaduto per averlo percepito così evidente.
Avevo assistito nel 1976 agli effetti del terremoto del Friuli. Stavo ripassando per il compito in classe di educazione tecnica del giorno dopo quando quella sera vidi il pavimento della cucina muoversi come le onde del mare. E’ un ricordo ancora oggi presente, incancellabile. Ma il Friuli era vicino.
L’Irpinia, no. Era almeno a 800 chilometri di distanza. Eppure quella “botta” arrivò fino a casa mia, nelle campagne cremonesi, un piattume di fiumi, pertiche coltivate e stalle. Un urto, un attimo, uno scossone secco, come a dire, sono arrivato. 3000 morti, una strage durata 90 secondi. Un’eternità all’inferno.
Il terremoto dell’Irpinia è diventato da allora un paradigma. Un monumento alla reazione della popolazione così come, purtroppo, alla lentezza e all’inerzia delle istituzioni. Una non ricostruzione nella ricostruzione. Commissione parlamentari, indagini, inquinamenti ambientali, una fotografia dell’Italia. Fiumi di libri, inchieste, una ferita aperta, posta sempre a confronto con la ricostruzione veloce in Friuli.
L’altro giorno sulla posta è arrivata una mail dal sindaco Francesco Somma, primo cittadino di Pimonte (nell’area metropolitana di Napoli). Ci sta abituando a eventi di sana buona amministrazione, di cura del territorio, di rilancio dell’identità territoriale. Come dovrebbe essere l’attività di un sindaco. Ecco la nota che qui pubblichiamo integralmente.
Ha un titolo. “San Michele, dopo 43 anni si avvicina la riapertura al pubblico”
Nella serata del 29 Novembre l’Amministrazione Comunale di Pimonte insieme alla parrocchia di San Michele ha presentato al pubblico gli step che porteranno all’apertura della Chiesa, chiusa dal terremoto del 1980.
“Insieme al parroco don Nino Lazzazera – dice il sindaco Francesco Somma – abbiamo definito tutti gli step che ci porteranno all’apertura della chiesa madre del nostro paese. Finalmente, dopo 43 anni dal 23 novembre 1980, la chiesa di San Michele a Pimonte riaprirà le porte ai suoi fedeli. Grazie ad un finanziamento regionale – ha sottolineato Somma – che ci ha permesso di acquistare un immobile di proprietà della chiesa si è riusciti ad introitare nelle casse della parrocchia la somma di 150.000, utile a poter finanziare i lavori di completamento della chiesa madre.
Un evento quello della riapertura che ha una portata storica.
Un evento che tutto il paese attende da ormai troppi anni e che oggi finalmente è realtà” . Un mega assegno quello che il sindaco ha consegnato nel corso dell’evento nelle mani del giovane parroco“. “Questa sera – dice don Nino- abbiamo reso partecipe la popolazione di quello fatto e di quello che faremo. In sinergia con il comune siamo riusciti a fare un passaggio fondamentale “. Un cammino fatto che ora ha bisogno anche dell’aiuto dei fedeli. “Abbiamo chiesto – conclude don Nino – ad ogni persona di impegnarsi in prima persona per portare a compimento questo progetto”.
Ecco la storia a lieto fine. Ora il terremoto è il buon governo opposto al quieto vivere della burocrazia indifferente e alle sue rovine. Un altro mondo è possibile. Con una “partita di giro”, l’amministrazione ha trovato la strada per sanare quasi mezzo secolo di cose incompiute. Ci stanno abituando alla rassegnazione, non tutti per fortuna accettano l’andazzo italiano. Quanti “modello Pimonte” servono per dare la sveglia epistocratica, una democrazia che ruota attorno ad una squadra di eletti competenti?