Draghi sul nido del Cuculo?

23 Gennaio 2022
Lettura 4 min
di Giovanni Cominelli – Che i partiti facciano, a proposito dell’elezione del Presidente della Repubblica, i nomi di candidati diversi è normale. Anomalo sarebbe il contrario. Il fatto però è che anche all’interno di ciascun partito le fratture e le divergenze sono notevoli e, nel caso del partito di maggioranza relativa, nel M5S, esplosive.

Tutto ciò per eleggere soltanto un notaio della Repubblica, come accade, per es., in Austria o in Germania? Come è evidente, non si tratta di un notaio. Non lo è più da qualche decennio. Da Pertini in avanti. Ma tracciare il suo identikit è diventato sempre più arduo, benché si disponga di un dettato costituzionale. Che resta, sì, interpretabile, ma che, soprattutto, appare sempre più inadeguato e sempre più fragile, al cospetto delle urgenze della realtà e a dispetto della difesa stentorea che ne viene fatta dai costituzionalisti di professione. Non è certo la prima elezione di un Presidente della Repubblica che si mostra avvolta da un intrico di emergenze sociali e politico-partitiche.

Nel cesto di questa scadenza 2022 ce ne sono almeno quattro, molto pesanti, che rischiano di sfondarlo: Il Covid, il PNRR, la fragilità dei partiti, i venti di guerra che soffiano dall’Est europeo-balcanico. Ma è, forse, la prima volta che esse mettono così a nudo l’impotenza e l’instabilità strutturale dell’assetto politico-istituzionale. Non è tutta responsabilità dei partiti la confusione più buia in cui si trovano ora, nell’immediato, circa il nome da proporre. Semmai le loro colpe stanno a monte e sono più gravi: non aver provveduto, nel corso dell’ultimo anno, all’ombra del Governo Draghi, neppure ad abbozzare un patto di riforma istituzionale e di nuova legge elettorale.

D’Alema, il figliol prodigo, aveva motivato il proprio No nel referendum del 2016, con la promessa che, dopo la sconfitta del SI, i partiti avrebbero in sei mesi siglato un nuovo patto. Sono passati non sei mesi, ma quasi sei anni… Unica riforma-scempio, fortemente voluta dal M5S e perseguita e appoggiata ottusamente dal PD, è stata quella della diminuzione del numero dei parlamentari, i cui effetti oggi pesano sulle scelte quotidiane dei singoli deputati, visto che uno degli imperativi categorici è quello di far durare il mandato fino a godere dei benefici personali del pensionamento. Per molti di loro, finiti per caso in Parlamento, sull’onda di qualche decina di voti, il ritorno a casa sarà definitivo. 

Tuttavia, nonostante luminose apparenze, la questione nazional-politica più rilevante oggi non è quella dell’elezione del Presidente, ma quella della tenuta, durata, efficacia del governo del Paese, attraverso il quale passano tutti e quattro i fili delle emergenze sopra ricordate. A seconda che si voglia mantenere o no il Governo Draghi, seguono conseguenze diverse per quando riguarda la scelta del candidato alla Presidenza della Repubblica. Che è, dunque, un corollario del teorema del governo.

Davvero i partiti vogliono continuare l’esperienza del Governo Draghi fino alle elezioni del 2023? Chiunque stimi il personaggio, è disposto a riconoscere che sette anni al Quirinale sarebbero ben gestiti dall’attuale Capo del Governo. Sarebbe il candidato migliore.

Ma qualunque partito o esponente di partito dichiari, con ottime o maliziose intenzioni, di volerlo candidare alla Presidenza, dice semplicemente che non lo vuole più al governo, ma solo ed eventualmente come Lord protettore di un governo debole, maggiormente controllato dai partiti, più di quanto non riescano a fare oggi. Essi hanno già dato un saggio, in occasione dell’approvazione della Legge di Bilancio 2022, dell’uso che intendono fare dei soldi pubblici e di quelli in arrivo del PNRR: favori ai propri presunti elettori. I partiti, nessuno escluso, non intendono lasciare ad un uomo che sta fuori e al di sopra del sistema dei partiti la gestione dell’anno pre-elettorale. Lo chiamano “primato della politica”. Guidato da quale stella polare? Dagli interessi immediati delle loro constituency e dai sondaggi settimanali di Nando Pagnoncelli. Ecco perché Draghi è scomodissimo al governo. Qualora spedito sul Colle più alto, sarebbe solo leggermente scomodo.

Ma la motivazione più cogente, che porta a volerlo togliere di torno dal governo è che la sua azione, tutta politica, sta generando un partito-Draghi trasversale. Anche se, probabilmente, non prenderà mai il nome e il cognome di una Lista, come invece accadde per Mario Monti, questo schieramento politico-culturale oscilla tra il polo liberal-democratico e il polo liberal-socialista, coinvolgendo quasi tutta Forza Italia, un pezzo della Lega, Italia Viva, Coraggio di Toti-Brugnaro, Base riformista del PD…

Al sovranismo-populismo non contrappone l’identitarismo massimalista di sinistra, “i campi larghi” e le elleniche “agorà”, ma un programma di governo, libero da specifiche ipoteche di constituency e, pertanto, più capace di fare sintesi di Bene comune. Il quale non pretende di librarsi metafisicamente sui corposi interessi sociali, ma riesce a sfuggire alla loro cattura, tanto da tenere bene in vista il destino del Paese negli anni a venire e “l’orizzonte degli eventi”, europeo e mondiale. 

Per le identità partitiche costruite in questi anni, Draghi appare una minaccia. E, per essere precisi, una minaccia più avvertita dalla vetero-sinistra, in trend regressivo dopo l’esperienza di Renzi, che dalla destra. L’odio ideologico feroce per Renzi da parte di Letta e di  una gran parte del PD, per non dire di quello della pattuglia errabonda di D’Alema-Bersani, è, da questo punto vista, un segnale: un parlare a nuora perché suocera intenda. La suocera è Draghi.

Perché, senza minimamente teorizzarlo, ha mostrato che cosa significa “sinistra di governo”. E ciò in condizioni non di alternanza, ma di obbligata quasi-unità nazionale. La Lega e una parte notevole del M5S hanno potuto condizionare e rallentare l’azione di Draghi – vedasi Legge di Bilancio e l’obbligo vaccinale per i tre quarti – ma non hanno potuto mettere in discussione la direzione della marcia verso una gestione più rigorosa dei soldi pubblici, verso una collocazione europea del Paese, verso un approccio più severo nelle questioni sanitarie. 
Insomma, al PD sta venendo il complesso del cuculo, che coltiva l’abitudine di far covare ad altri il proprio uovo. Che non sia Draghi il misterioso cuculo?
 


Per gentile concessione dell’autore, da Santalessandro.org

GIOVANNI COMINELLI

Giovanni Cominelli laureato in filosofia con Enzo Paci. Consigliere comunale a Milano nel 1980 per il Pdup, consigliere regionale dal 1981 al 1990 per il Pci. Dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Cdo dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Collabora a Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative sul Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009)

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