Catalogna al voto, indipendentisti favoriti

12 Febbraio 2021
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La Catalogna si avvia alle urne senza che per la prima volta da anni a questa parte l’indipendenza sia in cima all’ordine del giorno: la politica – almeno quella parte che dipende direttamente dall’iniziativa popolare, come le elezioni – è una delle vittime più illustri della effettiva protagonista del voto, la pandemia. Il che significa che a farla da padrone sarà l’astensione, più o meno equamente divisa. “Più o meno” può fare però la differenza fra una maggioranza assoluta o un esecutivo di minoranza, probabilmente di segno indipendentista, ma dati gli stretti margini senza garanzie di effettiva governabilità e con l’obbiettivo finale che sembra ancora molto lontano.

Questo non vuole dire che, coronavirus a parte, l’indipendentismo goda di ottima salute: non tanto per la base, che rimane vicina al 50% pur senza ancora riuscire per ora a sfondare il limite, quanto per i gravi disaccordi fra i partiti – personali e non solo – su come e quando riuscire a raggiungere la meta. Le divergenze fra le due anime dell’indipendentismo – quella di sinistra e repubblicana (Erc) e quella conservatrice (JuntsXCatalunya) vanno avanti dall’inizio della legislatura e già prima dell’epidemia hanno portato a una certa paralisi di governo. Situazione aggravata dalla continua persecuzione giudiziaria dello Stato spagnolo che ha portato all’interdizione del presidente della Generalitat, Quim Torra, reo di “disobbedienza” per non aver ritirato uno striscione a favore dei leader in carcere.

 Anche il carcere è uno dei motivi del contendere. La scelta del leader di Erc, Oriol Junqueras, di rimanere in patria all’indomani della dichiarazione unilaterale di indipendenza (Dui) gli è costata la prigione, mentre l’allora presidente conservatore Carles Puigdemont aveva preferito – anche per motivi simblico-istituzionali, va detto – la via dell’autoesilio. Questa disparità non facilita i rapporti fra le due dirigenze, alle prese con una differenza di fondo fra le strategie dettate dai rispettivi leader. Erc – storicamente più intransigente – preferisce oggi la strada del dialogo e del negoziato, convinta che la via unilaterale non possa portare ad alcun risultato tangibile vista anche la paralisi politica, ma non certo giudiziaria, in cui versa Madrid quando si tratta della questione catalana.

 Puigdemont e JXCat invece scommettono su un’ulteriore spallata. O quanto meno su un atteggiamento più battagliero e meno accomodante che spinga l’esecutivo di Pedro Sanchez a muoversi: tutto il contrario della tradizione “pattista” dei conservatori catalani, di solito filogovernativi quando si risuciva a strappare qualche concessione: ma la base è cambiata. I sondaggi li danno testa a testa (e alla pari con i socialisti) ma arrivare davanti potrebbe dire avere diritto a nominare un candidato Presidente per l’investitura, il che darebbe a una delle due un certo potere negoziale in più, anche se nella pratica pochi margini di manovra se si vuole mantenere unita la coalizione attorno a una posizione di compromesso che per forza di cose dovrà arrivare se si vuole continuare a governare.

Su una sola cosa i partiti indipendentisti (compresi i radicali della Cup, i cui seggi potrebbero rivelarsi fondamentali per raggiungere la maggioranza assoluta) si sono mostrati d’accordo, e per iscritto: nessun patto coi socialisti – una tentazione possibile per Erc in nome di un governo attendista ma quanto meno progressista, già provato peraltro senza troppo successo nei primi anni Duemila. Comunque vada a finire, astensione permettendo, lo scenario sembra destinato a rimanere simile a quello attuale: una situazione bloccata in cui l’indipendentismo governa ma non sfonda abbastanza da imporre un’accelerazione politica alla soluzione della questione, con Madrid che ogni tanto promette ma sostanzialmente rimane a guardare mentre a gestire la situazione è di fatto la magistratura. Una partita in cui il pubblico vorrebbe vedere giocare, anche male, ma l’intervallo sembra non fnire mai. 

(fonte Askanews)

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