di Stefania Piazzo – A gamba tesa. ”Quanto alla preoccupazione della Cei non so cosa esattamente li preoccupi, visto che il premierato non interviene nei rapporti tra Stato e Chiesa. Ma mi consenta di dire, con tutto il rispetto, che non mi sembra che lo Stato Vaticano sia una Repubblica parlamentare. Quindi, nessuno ha mai detto che si preoccupava di questo. E quindi facciamo che nessuno si preoccupa”. Lo ha detto Giorgia Meloni l’altra sera ospite di ‘Dritto e rovescio’ su Retequattro commentando le preoccupazioni del presidente della Cei, Matteo Zuppi.
In aperta campagna elettorale, botta e risposta. E’ vero che la Chiesa è libera di esprimere il proprio pensiero, ma sicuramente la forma di governo non è dottrina. Si resta nell’ambito della libertà di opinione e in un momento di grave crisi del consenso, uscite come quella della Cei scombussolano, e non poco, la rincorsa all’ultimo voto, anche quello cattolico o di quell’area che è moderata.
A dirla tutta, anche sull’autonomia calderoliana, non si sono sentiti pareri entusiastici dal mondo dei vescovi.
Ma occorre fare un salto carpiato all’indietro per ricordare quello che la politica smemorata non si gioca come utile strumento di dialogo, almeno per aprire un tavolo.
Siamo nel gennaio 1999, e i settimanali diocesani del triveneto, sbaragliando la politica fallimentare della Bicamerale, se ne escono col documento “Ricominciamo da 57”. 57 per evocare l’articolo che apriva la strada a forme di autonomia regionale. Il mondo cattolico, di fatto, si era messo di traverso rispetto allo Stato della conservazione e del potere. Fu un fulmine a ciel sereno, il territorio che ribolliva per uno Stato troppo stretto, per la morsa centralista, aveva dalla sua parte chi aveva compreso l’importanza e la necessità di un cambiamento.
Ma la stampa diocesana, tornò a dire la sua nel 2001, con una lettera a febbraio a tutti i parlamentari, per chiedere l’approvazione della riforma del titolo V della Costituzione: “Tale riforma costituzionale pur lacunosa, consentirebbe l’avvio della “stagione costituente” degli statuti regionali i quali, altrimenti, non possono decollare (…). Senza la nuova cornice costituzionale verrebbe meno la possibilità per le Regioni a statuto ordinario di riscrivere i propri statuti in chiave autonomista e federalista tale da valorizzare le capacità di autogoverno delle comunità locali… L’opinione pubblica è stanca di registrare solo parole e proclami e ritiene invece che sia il tempo di misurare l’evoluzione delle istituzioni democratiche verso processi sempre più vicini ai cittadini”.
In fin dei conti, il principio di sussidiarietà riempie la dottrina sociale della Chiesa.
Meglio che niente però…
Dopo l’approvazione, su “Gente Veneta”, uscì un editoriale sul testo varato: non la perfezione, “ma è un primo importante traguardo… Insomma, questa riforma costituzionale, pur minima, è la premessa per ogni ulteriore processo di cambiamento dello Stato verso vere forme di autonomia”. Che però non arrivarono mai.
Arrivarono invece le scomuniche quando il Veneto prese in mano il proprio destino, alzando la voce.
Nel 2014, i direttori dei settimanali diocesani del Veneto, uscirono con una lettera congiunta:
“Lo confessiamo: non abbiamo votato al referendum on line per la separazione del Veneto dall’Italia. Stando ai numeri, almeno un elettore veneto su due avrebbe aderito alla proposta di staccare la nostra regione dal resto del Paese….”.
La scomunica
L’esito di questo referendum-sondaggio non andava sottovalutato. Si aggiungeva ai tanti indicatori di un malessere diffuso. Si trattava di un disagio amplificato da una crisi economica che non trovava soluzioni immediate, da uno Stato centrale che appare, a molti, sempre più lontano, da una politica che fatica a riguadagnare la china della credibilità. E così si affacciava all’orizzonte “la questione veneta” dopo che la Lega aveva fatto del Nord intero una questione politica, fino a quando Bossi ne era segretario.
Il voto venetista s’inquadrava in un contesto europeo dove spirava un vento freddo nei confronti degli stati nazionali.
Nel 2006 la Devolution di Umberto Bossi, nel secondo governo Berlusconi, passò il voto del Parlamento ma la legge costituzionale non superò il referendum, anche se al Nord il consenso fu maggioritario.
Nel 2017, anni luce fa, si votò per il referendum consultivo sull’autonomia di Veneto e Lombardia. La lancetta della storia arriva al 2024 e si intravedono le tappe ciclistiche degli anni seguenti. L’autonomia differenziata divide ancora, e si ripete il coro dei tifosi pro o contro, mentre sempre meno cittadini vanno a votare, i giovani sono sempre più politicamente disimpegnati.
Le urne sono sempre più vuote, come le Chiese.
Davvero chi ci deve rappresentare ha a cuore la soluzione dei problemi o è solo una questione di conservazione, eterna, del potere?