Quel ministero dell’Agricoltura, così centrale e così blindato da Bruxelles che comanda e disfa. Altro che sovrani

23 Ottobre 2022
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di Giovanni Robusti – Mese di aprile, inizio, anno 1994. Piazza San Luigi dè Francesi, Roma. Tra il palazzo dei gruppi parlamentari e l’ingresso posteriore del Senato. Abbiamo vinto le elezioni politiche e siamo tante giovani matricole. Un capannello di colleghi senatori attorno a Umberto Bossi. Mi avvicino con prudenza. Sono un neofita, tra qualche nome di peso e alla presenza del boss. Si sta dissertando dei ministeri da chiedere nel nuovo governo. Il Berlusconi 1°. Mi faccio coraggio e suggerisco che anche l’agricoltura è un settore che, se ben “coltivato”, produce consensi. E mi prendo il primo, di tanti, “non capisci un caxxo di politica” da parte dell’Umberto. L’industria, gli artigiani i commercianti. Venne nominato ministro Vito Gnutti. Che tutti rimpiangiamo.

Oggi, 2022, altra Repubblica, altra ex Lega. Sentire Salvini pretendere l’agricoltura, che poi finisce al cognato della Meloni, è sconvolgente. Posso permettermi di entrare nello specifico perché di quello, di agricoltura e di politica agricola, mi sono occupato tutta la vita. Non per vanto. In fin dei conti il ministro dell’Agricoltura dell’unico Governo ombra della Lega Nord, indicato dal Parlamento del Nord, ero proprio io.

Perché oggi quel ministero, cancellato da un referendum e sempre risorto dalle proprie ceneri è diventato un centro di interesse? Addirittura riproponendolo con il nome originale “Agricoltura” seppur dopo una abrogazione referendaria. Scuola italica.

Per Salvini per una questione di uomini. Centinaio già ministro e poi sottosegretario di quel dicastero. Ma anche per aver misurato, positivamente, il consenso elettorale di quel settore. Soprattutto dopo le battaglie di fine secolo (quote latte e non solo) accreditate, dalla base agricola, alla Lega Nord.

Anche se, a dire il vero, la strategia all’interno della Salvini & C è oggi diametralmente opposta a quella della prima Lega Nord. Prima si giocava una partita tesa a staccare il mondo agricolo dall’influenza politica delle proprie organizzazioni datoriali (Coldiretti, Confagricoltura, Cia e pochi altri satelliti). Oggi il contrario.

Coldiretti, assieme alle ACLI, alla CISL sono sempre stati un grande bacino di voti per la Democrazia Cristiana. Al ministero dell’Agricoltura non c’era, e non c’è tuttora, nulla che sfugga all’attenzione Coldiretti. Se si vuole l’attenzione del mondo agricolo bisogna dialogare con quel soggetto. Noi all’epoca eravamo del parere diametralmente opposto.

Per Meloni il ministero agricolo è un’ottima occasione, sempre sfruttata in passato, per insediarvi un ministro che possa anche occuparsi di altro. O un ministro che tale deve essere nel Cencelli, ma non si sa dove metterlo. Oggi che sia un uomo fidato, come lo è il neo ministro, all’interno del Governo. Che possa guardarle le spalle. E per far questo deve essere dentro la compagine. E quale posto migliore se non quello di un ministero con il portafoglio di un altro (Bruxelles n.d.r). Chiuso, blindato e controllato. Spazi di manovra limitati e luogo delle decisioni altrove. Dove da sempre, per queste cose, vengono mandati i tecnici. O presunti tali, visti risultati. Risultati passati e anche futuri a guardare le proteste olandesi che non tarderanno ad arrivare anche da noi. Al Nord in particolare.

Il ministero dell’Agricoltura è l’unico che non può decidere nulla. La politica agricola è gestita a Bruxelles dal 1960. Metà secolo scorso. E viene applicata dalle Regioni. Tant’è che in molti paesi europei sono le Regioni il filo diretto della politica agricola sul territorio. Da noi, complici le Regioni del Nord che non hanno voluto capire e strappare, il terminale della politica agricola è rimasto centralizzato. Nelle mani dell’ex AIMA. E non serve commentare.

Di ministri tecnici, nella storia recente, se ne contano meno che le dita di una sola mano. Luca Zaia compreso. E i risultati si vedono. Ma qui entreremmo nel tecnico e non è il caso di annoiare.

Per ora non resta che guardare una scena già vista e ricordare uno dei tanti, per altro simpatici, “vaffa”. Parola oggi sdoganata dal senatore Berlusconi. Che di simpatico non aveva poi tanto.

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