Possiamo fare a meno di Conte. Dal suicidio “ebete” del Pd alla possibile rottura rivoluzionaria

16 Gennaio 2021
Lettura 5 min

di Giovanni Cominelli – Dalle cloache del Palazzo e dei mass-media salgono i miasmi della crisi del governo e della politica. Se Renzi fa cadere il governo, si vocifera, ciò si deve al fatto che vuole fare il Segretario generale della Nato o il Ministro degli Esteri, che vuole piazzare i suoi fedeli nei posti di governo, che è un bandito, un avventuriero, un palancaio, un egotico perso.

Un simile sguardo dal buco della serratura è proposto in primo luogo dal M5S e dal PD e mass-media collegati e, dentro il PD, dagli ex-renziani, neo-catecumeni dell’antirenzismo, a illusoria copertura del loro vuoto di pensiero riformista. L’incrocio del cinismo di palazzo e del populismo twitt-trumpista ha scatenato una ribollente campagna di odio e di linciaggio verso Renzi e di “mala educacion” alla politica di milioni di cittadini.

Infatti: come fa un cittadino a evitare di pensare che la politica sia soltanto un indegno mercato delle vacche, un luogo di ambizioni feroci e di psiche avariate? Si sa: nella società “homo homini lupus!”, ma, a quanto si vede, nella politica, sinistra compresa, “homo homini lupissimus”!
Ma, poiché c’è sempre “un cielo sulla palude”, proviamo a librarci al di sopra dei miasmi…


Si tratta di rispondere a due semplici domande: a) la condizione dell’Italia è drammatica? b) il governo Conte bis è all’altezza di questo dramma?

La prima è una domanda retorica: la condizione della produzione, dell’economia, del de-sviluppo, della caduta del PIL, del debito pubblico e dell’organizzazione sanitaria è lì da vedere.

E la società italiana? Passata la superficiale onda solidaristica della primavera, riemergono egoismi, corporativismi, illegalità, corruzione, resistenze alle vaccinazioni, irresponsabilità di massa, anche dei giovani millennials, ai quali gli adulti si sono dimenticati di trasmettere l’etica pubblica. Eviterò qui di passare in rassegna, per l’ennesima volta, il peggioramento delle amministrazioni pubbliche e i mali cronici della giustizia.

Merita ancora e sempre un accenno la drammatica contraddizione di un sistema partitico-istituzionale, nel quale i partiti – pallide ombre di quelli della Prima repubblica – si trovano al gradino più basso nella reputazione dei cittadini, ma dispongono del 100% del potere.

Un sistema, in cui i cittadini hanno quale unico mezzo di influenza quello delle risposte ai sondaggi o quello dei social; per il resto sono inchiodati alle sedie di spettatori, talora indignati, sempre impotenti. In questo enorme buco nero, scavato tra legittimazione minima e potere massimo, si nascondono tutti i rischi della democrazia italiana.

Fior di opinionisti e di intellettuali si danno da fare per analizzare al microscopio le varianti del virus populista, le responsabilità dei social e la condizione delle periferie. Per quanto riguarda l’Italia, si può asserire con certezza che il populismo è il sottoprodotto politico della lunga crisi di impotenza del sistema partitico-istituzionale.
E così, lemme lemme, il Paese sta arrivando alla crisi di sistema, che finora si è espressa come incapacità del sistema partitico di governare decentemente il Paese. L’irruzione del Covid ha fatto vedere questo abisso di fragilità. L’Italia è questa!


Alla seconda domanda, la risposta è no! Eppure, il mantra quotidianamente agitato dalle mille bandiere di preghiera tibetane suona così: non c’è alternativa a Conte. O Conte o barbarie! Si può, certo, migliorare, si può cambiare qualche ministro, ma, se Conte cade, arriva qualcosa di simile al fascio-trumpismo. La difesa del Governo Conte coincide, dunque, con la difesa della democrazia.


Perciò – si incalza – è puro avventurismo voler cambiare le ruote in corsa, mentre la macchina del governo affronta i tornanti pericolosi dell’emergenza pandemica. L’argomentazione è a porta girevole. Giacché, proprio a causa di un’emergenza sanitaria destinata a durare almeno un anno e di una crisi economico-sociale, che sta per esplodere, proprio ora sarebbe necessario un repentino cambio di marcia. Ma, secondo il pensiero emergenzialista, non è mai tempo di cambiare. Se c’è bonaccia, perché agitarsi? Se c’è tempesta? Occorre gettare le ancore. Risultato: il governo come galleggiamento immobile sulle corporazioni. Il Governo come non/governo. Che un simile governo, nato da un’operazione trasformistica, infaustamente promossa dallo stesso Matteo Renzi, potesse governare il Paese è stata solo un suo tragico errore.

Ora, che cosa stiamo rischiando al cospetto dei 209 miliardi? Il Piano scribacchiato dai Ministri PD Gualtieri, Amendola, Provenzano, ancorché riaggiustato tardivamente, è tuttora un “libro dei sogni”, non è “un Piano”. Perché lo diventi, occorre un coinvolgimento attivo, tanto nell’elaborazione quanto nell’implementazione, delle tecnostrutture amministrative, delle competenze tecnico-scientifiche, delle forze produttive.

Il Progetto Colao andava nella direzione giusta, ma è stato cestinato da una maggioranza politica, cui stanno a cuore i micro-interessi corporativi, dai monopattini ai rubinetti gocciolanti, al cashback…

Una maggioranza fondata sull’incompetenza famelica del M5S e sul collante insapore del PD. Così i miliardi saranno spalmati sulle clientele, su corporazioni conservatrici, luddisticamente ostili all’innovazione, su mafia, camorra e ‘ndrangheta, che sanno benissimo, loro, “come fare uso della crisi!”. Il rischio grave e paradossale è che quei miliardi contribuiscano alla deriva argentina del Paese.


Le soluzioni più nitide della crisi sono due: o governo di scopo o elezioni. Un Conte-bis o un Conte-ter sarebbero la ricomparsa sulla scena dell’andreottismo come farsa. Agostino Depretis, a confronto di Conte, era solo un maldestro apprendista. Il governo di scopo? Con chi ci sta. Nessuno ha più uno scopo? Allora elezioni. Vincerà, come emergerebbe dai sondaggi, il centro-destra? Non si tratta di un’alternativa escatologica, ma di una semplice, laica alternanza, anche se tanto la sinistra quanto la destra tendono a presentarsi come l’ultima spiaggia della democrazia e della Repubblica. Che decidano gli elettori!

Parafrasando B. Brecht, la democrazia è semplice a farsi! Quando sinistra e destra smetteranno di proporsi unilateralmente come “cieli nuovi e terra nuova”, forse si aprirà lo spazio per uno scopo comune. E forse anche per un pensiero costituente. Le nuove istituzioni e le nuove costituzioni non nascono da una tranquilla normalità, ma da un tempo di rottura rivoluzionaria. E questo è il tempo del Covid.


In questo frangente “rivoluzionario” non cessa di stupire il suicidio ebete del PD, arroccato attorno a Conte. Immolarsi sull’altare del futuro partito di Conte, che porterà via voti al PD, corrisponde, indubbiamente, al permanente schema dalemiano dell’alleanza della Sinistra con un Centro (che prima era Renzi e oggi Conte) e alla dottrina neo-dorotea di Franceschini: finito il bipolarismo, si governa con chiunque ci sta, senza vergognarsi.

Perché vergognarsi di non avere pudore? Solo che tanto la DC quanto il PCI erano, all’epoca, “partiti della nazione”, ora sono frammenti di un’esplosione, senza più un’orbita da percorrere con regolarità.

La lotta politica è così diventata una “guerra di corsa”, dove tutti sono pirati, dove non si fanno prigionieri.


Ci resta una speranza: che Tedeschi e Francesi non possono permettersi di lasciare andare la Penisola alla deriva, almeno non tutta…

Per gentile concessione dell’autore, tratto da santalessandro.org

Giovanni Cominelli laureato in filosofia con Enzo Paci. Consigliere comunale a Milano nel 1980 per il Pdup, consigliere regionale dal 1981 al 1990 per il Pci. Dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola. Membro del Gruppo di lavoro per la valutazione, istituito nel 2001 dal ministro Moratti, fino al 2004. Dal 2002 al 2004 membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi, poi consulente per la comunicazione fino al 2005. Dal 2003 al 2005 ha organizzato la manifestazione Job&Orienta dedicata all’istruzione. Membro del Cda dell’Indire dal 2005 al 2006, è stato responsabile delle politiche educative della Cdo dal 2005 al 2007 e della Fondazione per la Sussidiarietà fino al luglio 2010. Ricercatore presso il Cisem nel 2010. Collabora a Nuova secondaria. Ha scritto di politiche educative sul Riformista, Tempi, Il Foglio, Avvenire, Il Sole 24 Ore e i libri La caduta del vento leggero (2007) e La scuola è finita… forse (2009)

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