L’immenso Turani, e quel bisogno di capire i sogni del grande Nord

8 Gennaio 2021
Lettura 3 min

di Stefania Piazzo – Conobbi Giuseppe Turani dopo una prima intervista che gli feci da semplice redattore de la padania nel maggio 1997. Il tema era l’Europa. Anzi, il suo libro, “Scappiamo in Europa”. Lui, europeista convinto, giornalista economico di razza, difendeva l’idea di Europa più di ogni altro. Per la Lega quelli erano gli anni di “due monete”, e due diverse velocità per entrare nell’euro. Fu una intervista così irriverente che Peppino mi ritelefonò divertito e mi invitò a mangiare una margherita alla pizzeria Santa Lucia in Galleria a Milano, dietro il Duomo.

Io, un nano, e lui, un gigante da ascoltare. Si presentò regalandomi una borsa di suoi libri di economia. Lo chiamai poi tante altre volte e, molto spesso, nella sua casa di campagna, per saccheggiarlo di notizie e analisi sull’economia di questo disgraziato paese.

Ora che improvvisamente ci ha lasciati, riaffiorano i ricordi.

Ma c’è un un libricino dalla copertina gialla che Giuseppe Turani mi regalò in pizzeria. Era un libretto giallo, “Il sogno del Grande Nord”, uscito nel 1996. Già allora lui cercava di interpretare il futuro di questa terra, profeticamente, già senza Bossi e Berlusconi. Ed era “appena” il 1996. L’idea della secessione aveva cortocircuitato la politica, il Cav aveva preso un’altra strada, i due si erano di fatto separati in casa e tutti i sogni di rivoluzione dopo Mani Pulite erano finiti miseramente.

La sintesi di Turani era questa: “Tutti i disegni, o i sogni, elaborati dal capitalismo italiano durante gli anni Ottanta si sono dissolti. I poteri forti sono diventati poteri discussi, e i protagonisti di quella stagione ruggente sono ancora sulla scena, ma agiscono senza più avere obiettivi di rilievo strategico. Intanto lassù, nella frontiera del Nordest, è esploso un miracolo anarchico. E allora, che cos’è oggi il Nord? E’ un’economia alla disperata ricerca di qualcuno che la rappresenti politicamente. Sembrava avere trovato i suoi referenti in Bossi e in Berlusconi…. Fine delle speranze? Forse il destino del Nord è in un nuovo capitalismo”.

Da sottolineare e rileggere: “Un’economia alla disperata ricerca di qualcuno che la rappresenti politicamente”. Vent’anni fa come oggi.

Lo snodo è sempre lo stesso, acutamente infiammato da decenni di nulla di fatto. E da una economia che cambia e non ha riferimenti politici.

Turani aveva colto la modernità della questione settentrionale.

Eppure basta porsi una domanda: chi parlò per primo di questione settentrionale? Non la Lega. Questa formula circolava nell’ambiente milanese negli anni ’50 attorno ad Adriano Olivetti. Lo spiegò bene lo storico Luciano Carfagna in un capitolo di un altro libro, “La questione settentrionale”, edito nel 2007 dalla Fondazione Feltrinelli e a cura di Giuseppe Berta, docente di Storia contemporanea alla Bocconi. Lo stesso che, nel 2015, riprovò a interpretare i mali del Nord nel suo “La via del Nord”, recensito, guarda un po’, da Peppino Turani.

Scrive Turani (Il quotidiano nazionale del 12 aprile 2015):  “Nel libro di oggi, “La via del Nord”, Berta non crede più nemmeno a una delle illusioni che per anni hanno alimentato il mito del Nord e della Padania. Si è perso tutto per strada: la via del Nord si è smarrita. E quel territorio non ha più niente da indicare al resto del paese (…).  Ma il Nord, questo Nord orgoglioso, capace e intelligente, non ha nemmeno saputo difendere il proprio territorio, che ormai viene devastato a ogni pioggia appena un po’ insistente. Della “buona amministrazione” pubblica non si ha più notizia. Ma, soprattutto, in questo Nord non ci sono più idee e progetti. Si tira a campare. Nel Nord di una volta si aggiravano personaggi come Adriano Olivetti e altri capaci di inventare il futuro e di costruire una nuova società. Laboriosa, certo, ma anche abbastanza giusta. Oggi, invece, il Nord è un insieme di attività senza una direzione, senza un disegno. Certo, l’ultima crisi lo ha colpito duramente. Ma i segni del declino, scrive Berta, erano già tutti presenti, bastava vederli. E, a tratti, sembra dispiaciuto di aver scritto  dieci anni fa il primo libro sul Nord, assai più positivo. Grande esempio di onestà intellettuale. Ma, purtroppo, si deve convenire che il Nord di oggi è quello che lui descrive: è come il resto del paese e come quest’ultimo non sa come fare per uscire dalla crisi e per ritrovare un futuro”.

Analisi perfetta.

Il Nord, si interrogava a sua volta Turani, è lo specchio di chi, oggi? La classe politica si è italianizzata, la Brianza è diventata terra in cui la politica si è inquinata con le cosche. Perse le difese immunitarie, tutto sembra essere fagocitato dalla rassegnazione, dal malgoverno, dalla corruzione politica, dal baratto elettorale, da una società che non è più neanche “abbastanza giusta”. Meno Nord più Sud più voti.

Se potessi fare una domanda, ora, a Peppino Turani, gli chiederei: ma chi sono, oggi, i grandi eredi di Olivetti sul territorio a cui stanno stretti i binari populisti che stanno sgretolando l’idea di Europa in cui, guarda caso, proprio gli indipendentisti vogliono restare? Che spazio politico c’è, dopo gli slogan,  nella fatica della politica di consumare le sinapsi? Forse tornerebbe a ricordarci, Peppino, che dobbiamo “scappare in Europa”.

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