Il Nord continua a non vedere la terza Italia, cioè il Centro

5 Ottobre 2020
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di Sergio Bianchini – La sera del 2 ottobre sono andato a Biassono per assistere all’incontro con Castelli, Gremmo e il Prof. Giovanardi sulla questione settentrionale che, pur scomparsa dai media, resta con la sua enorme rilevanza.

Si sono ripetuti discorsi ben noti sulle differenze secolari, ormai chiare a tutti, tra nord e sud.

Si è rinominata la questione del residuo fiscale, anch’essa ben nota a tutti e delle trattative praticamente bloccate tra il governo e le tre regioni, Veneto Lombardia ed Emilia Romagna, che chiedono la devoluzione di alcune materie in base all’art. 116 della costituzione.

Giovanardi ha anche detto che, se accettate, le richieste in termini quantitativi non ridurrebbero il residuo fiscale positivo del nord ma avrebbero comunque un grande significato per sviluppi autonomistici successivi. Castelli, pur dichiarandosi ancora secessionista ha convalidato in tutto e per tutto la tesi di Giovanardi. Complessivamente ho trovato minimalista ed attendista il clima della serata. Anche se la stranezza della situazione attuale dove il centrodestra e la Lega governano praticamente tutto il nord ma vige l’assoluta impotenza politica del nord stesso è emersa in tutta la sua evidenza.

Immediatamente io ho pensato al fatto che il nord continua a non vedere la terza Italia. Cioè il Centro Italia con la Toscana come fulcro.

In tutte le analisi dei nordisti emerge costantemente la differenza, con ieri lo scontro ma oggi l’incontro, tra nord e sud. Il centro Italia non esiste e lì sta proprio il baricentro dello stato italiano

Il centro Italia, dopo aver esercitato un ruolo potente nella nascita del regno d’Italia di cui il toscano Ricasoli fu il primo capo del governo, e dopo la storia del Romagnolo capo del fascismo, ha espresso per 50 anni il più grande partito comunista dell’occidente. E’ vero che il PCI aveva dal 1945 una direzione togliattiana piemontese ma proprio nel nord non era mai riuscito a sfondare.

Anche la fondazione del PCI nel 1921 non era avvenuta nel nord ma a Livorno, in toscana e per 6 anni il segretario del partito era stato il napoletano Bordiga sostituito poi dal sardo Gramsci.

Nell’immediato dopoguerra la guida prevalente fu di Togliatti, portavoce dell’allora prestigiosissima Unione Sovietica (e di Stalin) uscita vittoriosa dalla lotta al nazismo. Ma Togliatti non era un estremista bensì un grande mediatore che riusciva a tenere insieme le varie anime del partito e principalmente quella meridionale di Amendola e Napolitano e quella nordica di Longo. Alla morte di Togliatti Longo fu eletto segretario ma dovette sottomettersi alla “democratizzazione” del PCI specialmente dopo l’invasione della cecoslovacchia del ’68 che fu costretto a deplorare. A partire da quegli anni nel nord l’antagonismo proletario delle grandi fabbriche cercò invano uno sbocco politico senza mai riuscire a debellare il predominio democristiano.

Le uniche regioni in cui il PCI aveva costantemente e pacificamente una maggioranza quasi assoluta erano proprio quelle dell’Italia centrale, Toscana, Umbria, Marche, e parti della liguria e del lazio.

In queste regioni non prevaleva nessuna delle due anime, quella nordista e quella meridionalista del PCI. Nell’Italia centrale prevaleva un comunismo molto locale basato sul buon governo del territorio e sul distacco dalla fortissima e lacerante lotta ideologica e politica vigente nel resto del paese.

Negli anni ’70, in piena crescita del terrorismo legato allo sviluppo patologico e disperato dell’estremismo proletario di sinistra, e dopo i moti fascisti di Reggio Calabria, il PCI, dal 1972 a guida Berlinguer, sposò la nuova questione meridionale, non più legata alla vecchia prospettiva dell’alleanza operai contadini. La nuova questione meridionale divenne la missione della crescita egualitaria del meridione, del superamento del distacco nord sud attuato tramite la leva fiscale dello stato.

Questa manovra produsse rapidi consensi al PCI nel meridione portandolo a governare Napoli col sindaco Valenzi nel ’75 e Roma nel ’79 con Argan . Era una strategia illusoria e perfino catastrofica perché soffocava la forza trainante del nord che venne sempre più spremuto e generò la lega. L’alleanza tra centro e sud contro il nord ha accompagnato l’arresto dello sviluppo economico del paese intero e l’avvio del declino. Un declino inesorabile e crescente.

Un declino che oltre allo scontento del nord ha generato a seguire anche uno scontento nel centro Italia dove è stato Renzi a disarticolare il comando dell’apparato tradizionale comunista sull’italia centrale e a rompere l’alleanza ormai sfinita tra centro italia e meridione ai danni del nord.

Non a caso Renzi fu ed è odiatissimo al sud.

Ma il nord non capisce questa situazione e scavalcando il centro Italia tenta a sua volta la via dell’alleanza col sud. La paralisi di questa strategia mi sembra ormai evidente.

A mio parere il nord deve misurarsi e allearsi col centro Italia per effettuare una vera riforma dello stato che veda contemporaneamente vari aspetti. Da un lato rendere agile ed efficiente l’apparato statale centrale e rafforzare il potere governativo ma dall’altro e contemporaneamente formulare una delega chiara di poteri effettivi alle regioni con la sottomissione del sistema giudiziario alla volontà del parlamento.

Questo implica anche la fine dell’esasperato egualitarismo territoriale e l’accettazione di uno sviluppo ineguale tra varie aree territoriali. Ineguale ma crescente comunque in tutte le regioni con minimi essenziali realistici garantiti da uno stato efficiente.

IL GIORNALE

Direttrice: Stefania Piazzo
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