160 anni di Regno d’Italia? Milano, più austriaca che italiana

17 Marzo 2021
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di ROMANO BRACALINI – L’Unità italiana che pareva un sogno irrealizzabile nel 1840-50, venne fatta nel decennio successivo e, come si disse allora, «troppo in fretta e troppo tardi», per dire che non era stata fatta molto bene.
Nessuno ha creduto opportuno di rileggersi qualche capitolo di storia, forse nel timore di cogliervi qualche clamorosa smentita a tesi vecchie e prefabbricate. Avrebbero scoperto che l’aspirazione a uno Stato autonomo del Nord è antecedente di almeno mezzo secolo all’Unità nazionale.
Agli inizi dell’Ottocento gli italiani continuavano a ragionare in termini cittadini, regionali e l’idea che bisognasse accentrare tutto per essere forti non entra-va nelle loro teste, si scontrava con la prassi e le abitudini di un popolo che identificava la patria con la propria città (come si continua a fare oggi quando non c’è un torneo di pallone a “unire” gli italiani, ma una volta ogni tanto).

«Noi non siamo un popolo, dobbiamo diventarlo», diceva il nobile milanese Francesco Melzi D’Eril, vicepresidente della Cisalpina, il quale non faceva mistero di sognare l’avvento di un autonomo stato italiano del Nord. Discussione già avviata.
A Milano la parola “Italia” era generalmente interpretata nel senso di “Nazione lombarda e nemmeno quando, nel 1805, la Repubblica si trasformò in regno d’Italia e Napoleone venne a cingerne la corona in Duomo i lombardi parvero ansiosi di estendere i confini del nuovo Stato al resto della penisola. La ricca e evoluta Milano era la vera capitale, ma pareva naturale che lo fosse solo da Roma in su.

Nel 1815, quando l’astro di Napoleone tramontò, alla Lombardia tornata austriaca venne unito il Veneto e il nuovo stato primeggiò nella penisola. Qualcosa vorrà dire. Non era ancora lo Stato sognato dagli autonomisti lombardi ma quello era il
primo nucleo da cui partire per fondare una federazione di popoli italiani. Grazie alla propaganda monarchica (in perfetta armonia col partito trasversale della conservazione statalista d’oggi) le idee federaliste furono confuse col concetto di municipalismo, particolarismo, separatismo. Era ancora vivo il ricordo della disgregazione seguita alla caduta dell’impero romano e il Federalismo, in quanto ingiustamente associato al frazionismo e al dominio straniero, venne
rifiutato della maggioranza come dottrina d’élite contraria agli interessi nazionali. Si osservi, anche nell’analogia del linguaggio, come il pregiudizio degli incolti sia rimasto immutato dopo quasi due secoli.

Nessuno rammentava le parole di Gian Domenico Romagnosi, maestro di Carlo Cattaneo: «Le piccole teste sono soggiogate dall’idea dell’Unità. L’uniformità poi è comoda, perché dispensa dal pensare. I gretti ammiratori d’un aspetto
solo preordinato crederebbero di peccare soggiungendo varietà»; nessuno ricordava l’insegnamento di Montesquieu che individuava nella pluralità e nell’equilibrio dei poteri la fonte della libertà. Non era facile convincere gli italiani d’ogni tendenza (ieri come oggi) che il sistema federale, lodato da Kant, Goethe, Tocqueville, era inseparabile dalla libertà e non incompatibile con l’unità politica, come si incaricavano di dimostrare i modelli della Confederazione Elvetica, degli Stati Uniti d’America e oggi della Germania.

Il Lombardo-Veneto sembrava a Carlo Cattaneo, il massimo ispiratore del cambiamento, una buona base di parte e un esperimento altamente positivo. Giova ricordare che il regno Lombardo-Veneto era lo Stato più evoluto e ricco della penisola? Giova ricordare che a onta della propaganda avversa la censura era più blanda che in qualsiasi altro Stato e che Massimo D’Azeglio trovava più agevole pubblicare le sue opere a Milano invece che a Torino? Giova ricordare che in Italia la proporzione media tra quelli che sapevano leggere e scrivere era di uno a cinque e a Milano di uno a tre? Giova ricordare che l’insegnamento era obbligatorio e gratuito per i bambini dai sei ai dodici e si multavano con 50 centesimi i genitori che non rispettavano l’obbligo scolastico? Nonostante i progressi fatti in 30 anni, ancora nel 1851 si contavano in Lombardia 109.763 bambini d’ambo i sessi che non frequentavano alcuna scuola pubblica o privata. E tuttavia, in Lombardia tre bambini su cinque andavano a scuola regolarmente, in Toscana uno su 10, nel regno di Napoli uno su 100.

Il merito maggiore del Regolamento austriaco era quello di aver stabilito parità di diritti tra i sessi, affermando che le femmine erano degne di ricevere la medesima istruzione dei maschi. Un principio di eguaglianza che non aveva
riscontro in Europa. Per l’istruzione scolastica l’Austria spendeva due milioni di lire, in proporzione più di qualsiasi altro Paese europeo. Nel Veneto, prevalendo la popolazione rurale, la scolarizzazione fu più lenta che in Lombardia, ma furono ugualmente fatti enormi progressi. Le due università del regno, Pavia e Padova, e i collegi superiori avevano cattedre di scienza e letteratura, d’erudizione antica, di storia e geografia, di lingue antiche (greco e latino) e sebbene non mancassero docenti in abito talare prevaleva il principio di laicità, tanto che lo storico Francesco Cusani riconosce che la gioventù lombarda che fece i suoi studi tra il 1821 e il 1845, «diede luminose prove del miglioramento della pubblica istruzione». Come si concilia tutto questo con il “terrore” descritto dalla propaganda risorgimentista?

Non si concilia perché la propaganda è il contrario della verità. Giova ricordare che negli anni Venti Venezia cadeva a pezzi e che in pochi anni rinacque? Il centro storico venne completamente risanato. Venne costruito il ponte ferroviario che collegava Venezia alla terra ferma. La ferrovia Milano-Venezia, sul progetto al quale collaborò anche Carlo Cattaneo, venne costruita nel 1844. La città ebbe l’illuminazione a gas e venne dotata dei più moderni servizi d’avanguardia. Fu l’Austria a intuire le straordinarie capacità d’attrazione della città, varando un programma di valorizzazione del patrimonio storico e artistico e incrementando il fenomeno nuovo del turismo di massa che contribuì a risanare le casse cittadine e a dare nuovo impulso ai commerci. Serve altro?

da il settimanale Il Federalismo, direttore responsabile Stefania Piazzo

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