Cremona, la Parrocchia di CristoRe pubblica la testimonianza di Lia, medico sopravvissuto al Covid 19

23 Marzo 2020
Lettura 3 min

La Parrocchia di CristoRe, nel famoso “quartiere Po” di Cremona, perché il più vicino al fiume, ha pubblicato la toccante testimonianza di un medico del Pronto soccorso, sopravvissuta al ciclone del coronavirus.

Per il valore di questo scritto della giovane parrocchiana, diffuso sul notiziario parrocchiale da don Emilio Trevisi, un testo utile per condividere il dramma umano mentre ci si lamenta per la quarantena forzata per decreto, riteniamo importante allargare la lettura alla fascia di pubblico la più ampia possibile.

Ecco il racconto di Lia a Beccara.

Ero in ospedale nel turno di notte, sarà stata l’una, quando Morgan, soccorritore della Croce Verde, ci ha fatto sapere che quattro mezzi di soccorso erano stati inviati dall’ospedale di Codogno per iniziare a “sgomberare” l’ospedale. Era arrivata la diagnosi di Mattia. Da quel momento, il 21 febbraio, sono passati tanti giorni. Li ripenso, adesso che sono a letto e sto guarendo dalla polmonite da coronavirus, che mi ha succhiato via tutte le forze, come fanno delle onde giganti che ti sbattono e ti risbattono sulla spiaggia.

A Cremona è arrivato uno tsunami, si può dire che con Codogno e Lodi siamo stati i primi a essere investiti dall’epidemia, ancora inconsapevoli di quanto sarebbe potuto accadere. E per continuare la metafora del mare, nei giorni che sono seguiti sembrava veramente di svuotare l’oceano con un cucchiaino. I malati continuavano ad arrivare e tutti avevano la polmonite e moltissimi avevano un’insufficienza respiratoria. Lavoravamo “in serie”, facendo entrare in open space i pazienti da visitare e a cui far fare esami, emogas, rx. Tutti in condizioni cliniche simili. Quasi tutti da ricoverare, magari ne ricoveravamo 20 a turno e 40 erano ancora in PS ad aspettare il posto letto.

L’ospedale ha aperto tutti i posti possibili, ha reclutato tutti gli infermieri possibili, ortopedici e chirurghi si sono riscoperti medici, al di là della loro specializzazione e sono venuti in Pronto Soccorso a dare una mano… molti di loro si sono poi contagiati.

I pazienti che soffrono di insufficienza respiratoria ispirano sempre una grande pena, così come ispira pena enorme il terrore nei loro occhi nel momento in cui si comunica la probabile diagnosi. Tutti quei visi, sfigurati nella loro fisionomia dalla mascherina dell’ossigeno, dalla maschera della Cpap, dalla fatica del far entrare aria nei polmoni. Le espressioni di sconforto. Il suono di mille colpi di tosse che risuonano nella mente. La consapevolezza che alcuni di quei pazienti, i più fragili, i più anziani, non ce la faranno.

Vite scivolate via, senza il conforto della presenza dei propri cari. Nonni morti senza rivedere più i nipoti, senza poter affidare ai figli il loro addio alla vita.

Il senso di smarrimento è diventato ancora più tangibile quando si è aggiunta la notizia che avevano intubato il mio collega Antonio, più giovane di me. Da poco diventato papà per la seconda volta. Immaginarlo lì, fragile, esposto, soggetto alle decisioni di altri (che per noi medici è una cosa molto faticosa da accettare). Sapere che la moglie, medico, era perfettamente consapevole di quello a cui stavano andando incontro, saperla angosciata con due bambini piccoli, uno di tre mesi.

In quel momento mi sono ammalata anch’io… Antonio però adesso è guarito. Estubato, dimesso. Ci vorrà molto tempo perché si riprenda: mi dice che fare il giro intorno al letto per lui al momento è come correre la maratona di New York.

Per tutti ci vorrà molto tempo. Ci vorrà il tempo perché le cose finiscano, ci vorrà il tempo per ricordare e piangere chi non ce l’ha fatta, ci vorrà il tempo per ripartire, per aiutare chi è più in difficoltà. Il dolore va attraversato. Io da parte mia attendo di tornare a dare una mano. Sono segregata in casa in camera, i ragazzi e Massimo mi portano i pasti annunciandoli con un “servizio in camera!” e i sorrisi dei miei bambini, la presenza loro e di Massimo, forte e serena, il loro “prendersi cura” di me, sono la terapia più efficace in questo momento, come lo è la speranza di poter uscire di casa in un giorno di sole, guardare gli altri negli occhi da vicino, abbracciarci e piangere e urlare “ce l’abbiamo fatta!”

Lia a Beccara


Ringrazio Lia, medico al Pronto soccorso dell’Ospedale Maggiore di Cremona e nostra parrocchiana, per questa sua testimonianza. Siamo vicini a lei e alla sua famiglia e speriamo davvero di poterci presto abbracciare, piangere e urlare: “Ce l’abbiamo fatta”.

Vogliamo ricordare tutti i nostri medici e tutto il personale sanitario. Mi piace ripetere che sono il segno del Cristo che si accosta e si prende cura, nella laicità della loro professione e della loro competenza. Perché Dio ci sorprende e ci viene incontro nei modi più inaspettati.

Quello che tutti possiamo fare è pregare e accettare responsabilmente le ordinanze che sono impartite per il bene di tutti.

Ogni mattina inizio la giornata con l’inno che dice: “Protesi alla gioia pasquale,/ sulle orme di Cristo Signore,/ seguiamo l’austero cammino/ della santa Quaresima”. Questa quaresima/quarantena è davvero un cammino faticoso: non solo austero ma intriso di inimmaginabile dolore. Ma siamo protesi alla gioia Pasquale. Buon cammino a Lia e tutti i medici, buon cammino a tutti i malati, a tutte le famiglie.

don Enrico

Tratto da:

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Direttrice: Stefania Piazzo
La Nuova Padania, quotidiano online del Nord.
Hosting: Stefania Piazzo

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