Riceviamo e pubblichiamo – di Riccardo Pozzi -Quando, molti anni fa, Umberto Bossi esplose con il suo movimento che chiamò Lega Nord, lo fece prospettando all’intero paese una via d’uscita politica al piano inclinato che la sua economia aveva già da tempo imboccato.
Presentò il federalismo e la responsabilizzazione amministrativa delle regioni come cambio strutturale per una nazione giovane e disomogenea come l’Italia.
Dopo un primo periodo dove sembravano diventati federalisti anche i vescovi, il federalismo cominciò ad acquistare aggettivi qualificativi ben riconoscibili: federalismo solidale, federalismo possibile, federalismo nell’ambito dell’unità nazionale.
Cos’era successo? Semplice . La politica e non solo, si era accorta che le disomogeneità italiane erano così marcate e profondamente radicate nei territori che la parola federalismo, applicata in modo corretto, si sarebbe col tempo trasformata in autonomismo e in seguito in indipendenza e lo avrebbe fatto così spontaneamente da escludere le dinamiche elettorali. Perciò misero una pezza.
Bossi e il gruppo dirigente della Lega Nord, di cui faceva parte anche un giovane Salvini, fece molti errori politici e diversi passi falsi strategici, imbarazzanti derive folcloristiche, qualche scivolone finanziario, ampolle, kilt e rituali di varia natura, ma l’efficacia della loro proposta era dimostrata dalla levata di scudi unanime che il centro sud mise in atto immediatamente, con i suoi cittadini delle regioni più assistite e anche con i suoi residenti in quelle più produttive. In sostanza la parte produttiva del paese era stata così ben imbragata dai flussi di immigrazione interna, pubblico impiego e forze dell’ordine sapientemente e saldamente in mano ad alcune aree geografiche, che il risultato elettorale non si dimostrò mai all’altezza dei cambiamenti che proponeva.
Ora, dopo anni di lento movimento di sterzo, la direzione di marcia della Lega (senza nord) è diametralmente opposta a quella di venti anni fa. I referendum per l’autonomia non vengono difesi dal partito perché fonte di imbarazzo politico e ingombrante contraddizione per il gruppo dirigente. Il federalismo è stato definitivamente sepolto e la Lega ha assunto parole d’ordine che le stanno procurando crescenti consensi proprio nelle regioni più assistite e mal amministrate del paese.
L’equazione è paradossale quanto surreale; chi votava Lega Nord riconosceva l’opposizione feroce del centro sud come la prova della giustezza delle rivendicazioni territoriali del nord; chi oggi vota Lega lo fa proprio perché ritiene che la forte raccolta di consensi nel centro sud sia la prova che la Lega non è più Lega Nord e che non vuole più imporre responsabilità territoriale in Italia.
Ma la domanda è elementare. Perché la Lega di Salvini continua ancora a trattenere l’ultimo suffisso del vecchio nome? Non è più Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, è diventata solo Lega. Che cosa starebbe legando insieme? Forse il genio della comunicazione Salviniana, Luca Morisi, potrebbe anche scomodarsi per calmierare il disorientato arrovello che attanaglia la vecchia militanza, oggi sparita nell’astensione o nel pulviscolare antisalvinismo dello sconforto.
Non fosse altro che per pietà delle ulcere di molti contribuenti forzati di pianura e per non offendere la loro intelligenza.
Insomma polentoni si, ma coglioni no.
La lettera – Polentoni sì, coglioni no
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